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Le ragazze e i ragazzi che sfidano la mafia in Calabria

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A cura di @NedCuttle21(Ulm) (modificato).

Alle prime luci dell’alba del 12 marzo del 1977, in una strada provinciale del Mezzogiorno cadeva, sotto i colpi della lupara, Rocco Gatto, mugnaio comunista di Gioiosa Ionica, piccolo comune di sole 7mila anime adagiato su una zona collinare nella provincia di Reggio Calabria. Qui nel ’64 la vittima acquisì il piccolo mulino nel quale fino ad allora aveva lavorato come garzone. L’azienda divenne presto oggetto delle attenzioni vessatorie della criminalità organizzata, ma Gatto seppe sempre affrontare con coraggio la protervia dei malviventi, senza mai cedere, nonostante i numerosi danneggiamenti perpetrati ai danni della sua attività e alle intimidazioni. Gatto finì col pagare con la vita una denuncia sporta presso i carabinieri nei confronti del clan Ursini, a cui contestava di aver ostacolato, la domenica del 7 novembre 1976, giorno di mercato, i commercianti di Gioiosa con l’imposizione del coprifuoco in tutto il paese in onore del boss Vincenzo, rimasto ucciso il giorno prima, sabato 6, nel corso di una sparatoria coi militari dell’Arma.

All’omicidio del mugnaio seguirono diverse manifestazioni che culminarono nel 1978 nella realizzazione in Piazza Vittorio Veneto, sulle pareti del vecchio teatro comunale, di un murale alla cui esecuzione contribuirono sia artisti locali che alcuni militanti del Partito Comunista di Milano.

A Gioiosa, i segnali di un diffuso sentimento di ribellione nei confronti della ‘ndrangheta si erano già palesati agli inizi degli anni ’70, periodo in cui la comunità guardava con ammirazione a figure irreprensibili come il sindaco comunista Ciccio Modafferi – che nel ’75 organizzò uno sciopero contro la mafia e al quale si deve anche la costituzione del piccolo comune calabro come parte civile nel processo sull’omicidio di Rocco Gatto – e Don Natale Bianchi, baluardo della lotta alla corruzione, fortemente inviso alla curia locale per essersi opposto a suo tempo al potente prete vicino alle cosche Don Giovanni Stilo.

Come racconta un reportage di Angelo Mastrandrea per Internazionale, tra i comuni della Locride, Gioiosa è, al contrario di altri, uno di quelli in cui la ‘ndrangheta ha sempre faticato a intessere relazioni criminogene, sia con gli esponenti della classe politica che con la società civile. Ma se a ordire trame delittuose questo paesino prospiciente la costa ionica sembra proprio non essere avvezzo, stessa cosa pare non possa dirsi a proposito di un altro tipo di intrecci e cioè quelli, tutt’altro che deplorevoli, ben più complessi e certamente di più fine fattura che si realizzano per mezzo degli antichi telai in legno. Difatti qualche tempo fa, un gruppo di giovani donne del movimento locale antimafia si è posto un obiettivo davvero ambizioso: recuperare, salvandola dall’oblio, la secolare tradizione telaistica, che in Calabria affonda le sue radici nella Magna Grecia. Per raggiungere tale scopo, il risoluto gruppo ha dovuto coinvolgere le anziane majistre (maestre) ancora in vita, uniche depositarie delle astuzie occorrenti alla pratica della suddetta arte, per carpirne i segreti gelosamente custoditi e tramandati nel tempo da madre in figlia attraverso un curioso stratagemma mnemonico di necessità: quello delle nenie, cantilene nei cui versi veniva ingegnosamente nascosto, a seconda del disegno di tessuto da realizzare, l’ordine matematico del passaggio dei 1800 fili nei licci del telaio; un metodo che per chi non aveva potuto imparare a leggere e scrivere costituiva un ottimo espediente per preservare la complessa tecnica e tramandarla ai posteri. Le anziane majistre, resesi con orgoglio disponibili, ne hanno consentito la trascrizione su carta facendo sì che un gran patrimonio di tessuti greganici e bizantini non andasse perso.

A questo punto, messa al sicuro la parte teorica, non restava che recuperare alcuni vecchi telai, ristrutturarli e cominciare a esercitarsi concretamente. Ed è così che oggi quelle giovani donne sono diventate a tutti gli effetti le nuove majistre. Hanno quindi trasmesso le conoscenze acquisite ad altre ragazze, creando una vera e propria rete di tessitrici in tutta la zona, e cominciato a produrre, in tessuti biologici, moderni capi di abbigliamento sotto il marchio di moda eco-etico Cangiari (cambiare), come spiega un’intervista rilasciata alla Stampa; la cui sede è proprio a Gioiosa Ionica, in una villetta sequestrata alla ‘ndrangheta e adibita a laboratorio non distante da quel murale che testimonia il valore del sacrificio di Rocco Gatto e di tutte le altre vittime della criminalità organizzata:

Chiara Pirroncello è una delle eredi della tradizione telaistica, portata avanti con pochissime altre donne, unite dalla volontà di rinnovarla. […] Sua madre era l’ultima tessitrice a mano di Chiaravalle. Quando le aveva detto che voleva accedere ai segreti della sua arte, si era sentita rispondere: “Se vuoi imparare, devi prima procurarti un tuo telaio”. Ne ha trovati due in famiglia, senza difficoltà. Il più antico, ottocentesco, era della nonna di un suo cugino, che lo teneva smontato in cantina; l’altro, di quelli che fino a cinquant’anni fa erano utilizzati in ogni casa per tessere i corredi nuziali o lavorare il lino e la ginestra, era della cugina di un suo cugino. Sulla falsariga di questi due ne ha fatto costruire un terzo da un falegname. La cosa più difficile è stata imparare a usarli.

Immagine da Wikimedia.

 


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