La mucca è caduta ma non è morta

Antisionismo e antisemitismo

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Su Doppiozero, un commento di Mauro Boarelli sull’ultimo saggio della semiologa milanese Valentina Pisanty: Antisemita. Una parola in ostaggio.

Il conflitto tra Israele e Palestina ha intensificato il controllo sul discorso pubblico. Istituzioni politiche e accademiche e organi di informazione – con poche eccezioni (particolarmente rare nel panorama italiano) – hanno partecipato all’imposizione di un quadro interpretativo semplificato e polarizzato che classifica in modo perentorio chiunque assuma una posizione critica nei confronti della condotta di Israele come ostile all’esistenza stessa di quello stato o come antisemita. Ogni possibilità di dibattito è preclusa: con un “antisemita” (non importa se reale o immaginario) non si discute.

Boarelli spiega come il lessico sia sempre stato un campo di battaglia per i politici; nel caso di «antisemitismo» la divisione è più profonda.

Il tentativo di affermare un monopolio sulla definizione di antisemitismo è strettamente connesso alla disputa intorno al significato storico e all’eredità della Shoah. In un articolo di notevole valore pubblicato dalla rivista “Gli asini” (n. 113/2024), Stefano Levi Della Torre ha messo a fuoco con grande lucidità la portata del conflitto tra due diverse concezioni. La prima assume l’unicità della Shoah come elemento che ne afferma il valore universale. In questo senso, “la memoria della Shoah vale non solo per se stessa, ma anche a focalizzare l’attenzione su ogni altra «crudeltà di massa» del passato e del presente al fine di mobilitare le coscienze e l’azione perché fatti simili non si ripetano né per gli Ebrei né per altri.” La seconda afferma invece che “lo sterminio degli Ebrei è un fatto estremo, tale che ogni commistione con persecuzioni, massacri e genocidi inflitti ad altri e in altre situazioni riduce la percezione della sua unicità e della sua portata […]”. La prima sostiene che il crimine commesso contro gli Ebrei sia stato un crimine contro l’umanità, e quindi la sua memoria esprime sia un monito a riconoscere che il male estremo risiede nella nostra normalità, sia uno stimolo ad agire perché nulla di simile possa ripetersi. La seconda – adottando una prospettiva opposta – sostiene che la Shoah abbia rappresentato un crimine dell’umanità contro gli Ebrei, e in questo modo chiude l’interpretazione entro uno spazio dominato dal vittimismo e dalla sacralizzazione della Shoah.

Di fronte ad un fenomeno odioso, si lascia quindi spazio alla liturgia più che all’analisi:

Chiusura è quindi il tratto che accomuna politiche della memoria e del controllo del linguaggio e caratterizza aspetti cruciali della vita politica e sociale modellata nel corso di un lungo arco temporale. Questa metamorfosi mostra ora il suo volto autoritario. Se la ristrutturazione del linguaggio analizzata da Pisanty ha radici nel passato, l’aggressività con cui si manifesta ai nostri giorni rappresenta un aspetto peculiare. D’altra parte non c’è da stupirsi: chiusura invoca necessariamente censura, e prima o poi la censura arriva, anche nella forma più subdola dell’autocensura, indotta dalla paura di prendere posizioni che verranno sistematicamente stigmatizzate. Il dibattito pubblico sul conflitto tra Israele e Palestina – in particolare dopo il feroce attacco di Hamas – è stato fortemente condizionato dal binomio censura/autocensura. Pisanty analizza il caso della Germania, ricostruendo le tappe attraverso le quali, nel corso di un ventennio, le “politiche della memoria […] hanno assunto i tratti di una religione di stato” (p. 119), cristallizzando il lungo processo di elaborazione del senso di colpa della nazione in una serie di imperativi categorici cui tutti devono uniformarsi, pena l’esclusione dalla vita civile (e quanto questa esclusione sia concreta è testimoniato dai casi di censure e licenziamenti riportati nel capitolo).

 


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