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La meritocrazia negli Stati Uniti: una trappola?

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A cura di @NedCuttle21(Ulm) e @Qwerty.

In un articolo pubblicato su The Atlantic, l’autore del saggio The Meritocracy Trap Daniel Markovits sostiene che il modello meritocratico statunitense sarebbe non solo fonte di disuguaglianze eccezionali – soprattutto per quanto riguarda l’accesso all’istruzione superiore – ma anche causa di un grave malessere psicologico nei soggetti più competitivi impiegati nei lavori più remunerativi.

In the summer of 1987, I graduated from a public high school in Austin, Texas, and headed northeast to attend Yale. I then spent nearly 15 years studying at various universities—the London School of Economics, the University of Oxford, Harvard, and finally Yale Law School—picking up a string of degrees along the way. Today, I teach at Yale Law, where my students unnervingly resemble my younger self: They are, overwhelmingly, products of professional parents and high-class universities. I pass on to them the advantages that my own teachers bestowed on me. They, and I, owe our prosperity and our caste to meritocracy.

Sul New Yorker, Louis Menand riflette sulle disuguaglianze prodotte dal sistema meritocratico statunitense commentando criticamente il saggio di Daniel Markovitz The Meritocracy Trap.

In recent years, we have been focussed on two problems, social mobility and income inequality, and the place these issues appear to meet is higher education. That’s because education in the United States is supposed to be meritocratic. If the educational system is reproducing existing class and status hierarchies—if most of the benefits are going to students who are privileged already—then either meritocracy isn’t working properly or it wasn’t the right approach in the first place. Paul Tough, in “The Years That Matter Most: How College Makes or Breaks Us” (Houghton Mifflin Harcourt), thinks that the problem is a broken system. Daniel Markovits, in “The Meritocracy Trap” (Penguin Press), thinks that the whole idea was a terrible mistake.

Spesso le critiche alla meritocrazia si concentrano sul fatto che nella realtà non ci sia abbastanza meritocrazia, e che i ricchi e i potenti scavalchino i meritevoli privi di mezzi. Secondo David Markovits, autore del libro “The meritocracy trap”, è invece il concetto stesso di meritocrazia ad essere problematico. Nel mondo moderno, secondo lui, la maggior parte dell’élite è in realtà “meritevole”, nel senso che lavora a lungo ed è effettivamente più istruita e competente del resto della popolazione. I suoi soldi (e su questo, pur non smentendo Piketty, la sua prospettiva se ne distacca) vengono dall’attività lavorativa, che crea a sua volta domanda per altri posti di lavori iperqualificati e redditizi, in un ciclo che si autoalimenta. In questo contesto, la mobilità sociale è più difficile, dato che sono in maggioranza i figli dei ricchi a potersi permettere gli investimenti, in termini di tempo ed educazione, necessari per essere “meritevoli”. Questa meritocrazia porta inoltre ad altri effetti negativi, come l’alienazione e l’insoddisfazione che sono visibili sia nell’élite che nei lavoratori dequalificati, che hanno portato negli USA alla crescita dell’uso di oppiacei, e la progressiva polarizzazione della società. Per questo, Markovits invita a riconsiderare l’opportunità di una meritocrazia così competitiva, e a chiedersi se non si possa puntare a una società che non valorizzi solo i pochi ultrameritevoli, ma i molti “mediamente meritevoli”, con una classe media più ampia.

Immagine da Wikimedia.

 


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