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Manifestazioni, video, sorveglianza

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L’ondata di proteste che sta stravolgendo gli Stati Uniti è partita da video amatoriali fatti per strada che hanno ripreso gli ultimi strazianti minuti di vita di George Floyd. E proprio i video sono cruciali per i manifestanti (così come già avvenuto in altri luoghi e Paesi in passato) per documentare le manifestazioni. E poi per mostrare la brutalità della polizia; e per far crescere le proteste per il razzismo e la violenza immotivata (A questo proposito segnalo un agghiacciante thread Twitter che raccoglie oltre duecento filmati di violenze della polizia per strada).

Tuttavia i video in mano ai cittadini non bastano per produrre un cambiamento. Non riescono da soli se non c’è la possibilità di chiedere conto degli abusi di potere. In dieci anni, dal 2005 al 2014, con una media di oltre mille persone uccise dalla polizia all’anno, negli Usa solo 48 poliziotti sono stati accusati di omicidio od omicidio colposo.

Uno studio del 2017 realizzato dall’amministrazione di Washington, DC, in cui sono state assegnate bodycam a oltre mille poliziotti, riferisce di non aver riscontrato differenze nel comportamento delle forze dell’ordine rispetto a chi non indossava una videocamera. Un altro studio è arrivato a conclusioni simili, cioè che la presenza di una bodycam non sembra influire sull’uso della forza da parte della polizia. La consapevolezza di poter essere filmati non è sufficiente di per sé per far modificare il comportamento di chi gestisce l’ordine pubblico se poi questi filmati, in caso di abusi palesi, non portano a una indagine; e se, anche qualora si apra un’indagine, questa finisca in un nulla di fatto, come spesso succede negli Usa.

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