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Spyware e giornalisti; il caso Assange

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Lo spyware è arrivato in modo impercettibile. Nessun link, nessun messaggio esca, nessun SMS, nessuna telefonata. Semplicemente, Omar Radi ha aperto il browser del suo telefono per visitare un sito ma prima di approdare a destinazione è stato reindirizzato brevemente da un’altra parte, a uno strano indirizzo. È stato un attimo, quasi impossibile da accorgersene a meno di non prestarci specifica attenzione.
A quel punto lo spyware – un software malevolo progettato, in questo caso, per spiare le attività e i contenuti che passano da uno smartphone – prende il controllo del dispositivo, ed è in grado di monitorare le mail, chat, telefonate, ma anche di attivare all’occorrenza microfono e videocamere trasformandosi in una cimice ambientale.

Una tecnologia di sorveglianza estremamente invasiva, ormai usata da anni da molteplici Stati a fini di investigazione, sia nell’intelligence sia in indagini giudiziarie. Solo che Omar Radi non è un terrorista. È un noto giornalista investigativo che si è occupato di movimenti di protesta in alcune regioni del Marocco (come il movimento Hirak), che anni fa ha ricevuto un premio per le sue inchieste sullo sfruttamento delle cave di sabbia nel Paese, che si è occupato di corruzione della classe politico-imprenditoriale.

Quando Radi ha ricevuto questo spyware silente era il settembre 2019, e stava giusto incontrando un suo amico, storico e attivista per i diritti umani, Maati Monjib. Entrambi sapevano di essere bene o male nel mirino da tempo. Monijb sapeva anzi di essere stato attaccato con uno spyware in passato, e lo stesso sapeva Radi, che infatti era particolarmente attento a non cliccare su link sospetti. Quello che non sapevano è che proprio Radi ora era oggetto di attacchi e che lo era e sarebbe stato più volte più volte tra il gennaio 2019 e il gennaio 2020.

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