Conor Friedersdorf su The Atlantic parla del connubio «Diversità, equità e inclusione» (DEI) e le assunzioni accademiche (€ — alt).
Le «dichiarazioni DEI» sono dei documenti obbligatori che vengono fatti scrivere in un numero sempre maggiore di università negli Stati Uniti e nel mondo. I sottoscrittori si impegnano a promuovere un’università più inclusiva illustrando i loro sforzi pregressi e gli impegni per il futuro, a partire dal linguaggio usato, proseguendo con i corsi frequentati a tema diversità e razzismo e molto altro.
Negli Stati Uniti, le dichiarazioni DEI sono state osteggiate dapprima dal Partito repubblicano, che ha tentato — con alterne fortune — di bloccarle. Oggi però sono invise anche da una parte dell’accademia più progressista. Il cambio di prospettiva si spiega semplicemente: le DEI fanno parte del processo delle assunzioni accademiche. In un settore molto competitivo dove i posti sono pochi e i candidati molti, i malumori montano:
Questo mese, il professor Randall L. Kennedy, eminente studioso di tematiche razziali e diritti civili, ha pubblicato un editoriale su The Harvard Crimson criticando l’uso di dichiarazioni di diversità, equità e inclusione nelle assunzioni accademiche. “Sono uno studioso di sinistra impegnato nelle lotte per la giustizia sociale”, ha scritto. “Le realtà che circondano le dichiarazioni DEI obbligatorie, tuttavia, mi fanno trasalire”.
Friedersdorf si lancia in una critica alle dichiarazioni DEI, affermando che porterebbero a storture e in alcuni casi sarebbero pure controproducenti per gli obiettivi che si prefissano, nonché di dubbia costituzionalità negli Stati Uniti. Secondo Friedersdorf il risultato è un appiattimento di quel che scrivono i candidati rispetto a quello che si aspettano sia la «risposta giusta». L’autore si chiede: tra questi possibili esempi di DEI, quale valutare come “corretto”?
Un candidato scrive: «Avendo approfondito la letteratura di ricerca sui tipi di personalità autoritaria, ritengo che il modo migliore per ridurre al minimo l’animosità razziale nella cultura della classe sia quello di trattare i membri di ogni gruppo razziale in modo indifferente al colore, perché chi consideriamo “altro” è malleabile e aumentare la salienza della razza potrebbe favorire un clima che porta un maggior numero di studenti di minoranza a essere considerati altri».
Un secondo candidato: «Avendo approfondito la teoria critica della razza, approcci esplicitamente consapevoli della razza alla gestione della classe mi sembrano vitali per consentire agli studenti di colore di partecipare da pari a pari al disaccordo guidato dalla curiosità».
Friedersdorf ammette che il ventaglio di opinioni tra i professori è variegato. Forse le dichiarazioni DEI non sono da buttare al macero, ma solo da riformare.
Ma in una «prospettiva diversa» sulle dichiarazioni di diversità pubblicata dal Crimson si sostiene che «il furore per le dichiarazioni di diversità nelle assunzioni è un’arma inutile». Edward J. Hall, professore di filosofia ad Harvard, ha riconosciuto i difetti nel modo in cui le dichiarazioni DEI sono attualmente utilizzate, arrivando a dichiarare: «Condivido la rabbia del mio collega, il professor Randall L. Kennedy”. Tuttavia, ha proseguito, “dovremmo indirizzare la rabbia verso il suo giusto bersaglio: non le dichiarazioni di diversità in sé, ma piuttosto la visione terribilmente distorta che si è affermata su ciò che dovrebbero contenere».
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