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La battaglia di Manbij vista da un osservatore [EN]

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Su suggerimento di @Ander Elessedil

Wladimir van Wilgenburg è un giornalista olandese freelance. Copre da anni i conflitti in Medio Oriente e nelle ultime settimane ha seguito l’offensiva delle forze curde e alleate contro l’ISIS come “embedded”. In questo articolo (del 5 agosto) fa il punto dell’offensiva (nel frattempo le ultime notizie riferiscono di una ritirata dell’ISIS dalla città)

Le forze curde hanno lanciato l’assalto alla città di Manbij, nel nord-est della provincia di Aleppo, il 31 maggio, dalla testa di ponte creata poche settimane prima intorno alla diga Tishreen, sull’Eufrate. Proprio la diga, e la strada che la percorre, è stata fondamentale per l’operazione come collegamento fra le due sponde del grande fiume.

L’offensiva ha varcato una ipotetica linea rossa imposta dal presidente turco. Erdogan non vuole in alcun modo che i curdi siriani riescano a unire i tre cantoni in cui è diviso il loro territorio in Siria (Efrin, Kobane, Qamishli). Per impedirlo ha spesso minacciato di intervenire con l’esercito nel teatro siriano. Per questo motivo l’SDF, il gruppo ombrello che raggruppa i curdi dell’YPG e le forze alleate, ha cambiato obiettivo dalla città di Jarabulus, sita sulla sponda occidentale dell’Eufrate al confine con la Turchia (è presente un’importante posto di frontiera) alla città di Manbij, più a Sud e lontana dal confine. I turchi hanno anche più volte chiesto agli USA di interrompere o ridurre i raid in supporto ai curdi ma, per ora, Washington ha continuato a supportare l’operazione. Anche con forze speciali sul terreno.

L’ISIS, dal canto suo, ha impostato una fiera difesa della città, tentando varie volte di liberarla dall’assedio in cui l’ha stretta l’offensiva curda fin dalle prime settimane. I curdi infatti hanno dapprima evitato la cittadina (Manbij, pre guerra civile, dovrebbe aver avuto una popolazione di 120.000 abitanti) superandola e chiudendo le vie d’accesso sperando di indurre i miliziani a ritirarsi. Visti inutili i tentativi di catturare Manbij senza combattere l’SDF si è impegnato in una costosa operazione casa per casa e strada per strada in cui hanno perso la vita centinaia di suoi uomini e donne. Ad oggi la città è liberata per il 90% (l’articolo dice 70% ma è già datato) e sembra veramente questione di giorni, se non di ore, la sua fine.

I motivi per cui l’ISIS ha deciso di combattere e non di ritirarsi, come ha fatto in altre occasioni, sono analizzati da van Wilgenburg.

Innanzitutto Manbij ha un’importanza strategica fondamentale per l’ISIS. E’ stata a lungo la porta d’accesso fra il califfato e il mondo esterno. Per la città sono transitati quasi tutti i foreign fighters in andata e in ritorno dal confine turco, soprattutto dopo la conquista del punto di frontiera di Tal Abyad, fra Kobane e Qamishli, l’anno scorso. Perdere Manbij vuol dire, per Raqqa e Mosul, essere completamente isolati dal mondo.

In secondo luogo l’ISIS starebbe cercando di conseguire lo stesso effetto che i curdi hanno ottenuto resistendo a Kobane nel 2014. In quell’offensiva i miliziani persero migliaia dei loro uomini migliori e moltissimo equipaggiamento. Le loro possibilità di eseguire vere offensive furono quasi azzerate. Quindi ora cercherebbero, bloccando l’SDF in lunghi combattimenti casa per casa, di infliggere alte perdite ai curdi, in questo modo riducendo le loro possibilità di proseguire con altre offensive una volta ripulita Manbij. Non è da sottostimare il peso sociale e umano creato dalle forti perdite. Già ora vi sono resistenze al sistema di coscrizione obbligatoria impostato dall’YPG e un eventuale aiuto dei Peshmerga iracheni, per alleviare lo sforzo, non è ben visto dai vertici curdi siriani.

 

Immagine di Jacky Lee via Wikimedia Commons, CC BY 3.0


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