Alessia Dulbecco su “L’Indiscreto” parla del “trigger warning”, ossia dell’abitudine di segnalare in anticipo i contenuti che potrebbero risultare disturbanti per alcune categorie. Lo scopo è tutelare le persone che temono di rivivere un trauma che hanno vissuto sulla propria pelle, se assistono alla sua rappresentazione, o anche più in generale tutti quelli che abbiano paura di essere feriti da un contenuto disturbante. Da qualche anno film, social network, e negli Stati Uniti anche corsi universitari fanno uso dei trigger warning. Alcuni studi clinici sul tema, però, indicano come essi possano risultare inutili, o addirittura controproducenti.
Stando a queste ricerche, dunque, il ricorso al trigger warning non svolge il compito che si prefigge per diverse ragioni: nelle persone con un PTSD (disturbo post traumatico da stress), il solo ricevere una segnalazione genera la riattivazione di sensazioni spiacevoli collegate all’esperienza dolorosa vissuta in precedenza; nei soggetti senza diagnosi è emerso che essere preallertati produca una sensazione sgradevole, generata dalla possibilità di imbattersi in argomenti considerati problematici.
Si potrebbe pensare che i trigger warning, perlomeno, possano contribuire a creare un ambiente più sereno, facilitando la partecipazione di chi non si sente a suo agio con argomenti “spinosi” come morte, aborto, e dipendenze. Ci sono però ragioni per pensare che i trigger warning rendano in realtà più complicato affrontarli, trasformandoli in tabù, e che portino a vivere conflitti interpersonali, scomodi ma inevitabili, come abusi.
Il trigger warning innesca pertanto una reazione di fuga anche in contesti conflittuali, non pericolosi, in cui possono prendere vita quelle dinamiche funzionali alla crescita della persona, del gruppo a cui appartiene e della comunità. Abitare il conflitto non è semplice e molti autori, come il pedagogista Daniele Novara, insegnano fin dalla più tenera età a gestirli e a dirimerli. Nei contesti di apprendimento la creazione di un conflitto può avere una finalità pedagogica importante: se è vero che, come ricorda bell hooks, l’istituzione scolastica ha un problema con il pensiero critico, aiutare le nuove generazioni a stare in contesti scomodi ma dialogici – diversi quindi dalle echo chambers a cui i social ci hanno abituato – può costituire, parafrasando la studiosa, “una pratica liberatoria” sul piano personale e collettivo.
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