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Fenomenologia della miseria

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Un articolo a firma di Lorenzo Alunni pubblicato su Il Tascabile ci parla di La fontana rotta (Einaudi), libro scritto dall’antropologo statunitense di origini pugliesi Thomas Belmonte (1946 – 1995) uscito negli Stati Uniti nel 1979 e tornato da poco sugli scaffali delle nostre librerie. Nel libro l’autore raccontava la vita nei bassifondi del capoluogo campano attraverso quello che secondo Alunni stesso è un approccio duplice: scientifico-antropologico e, allo stesso tempo, letterario.

Belmonte partì con “l’ambizione di indagare un luogo etnografico limite”: tale doveva sembrare all’epoca Napoli a un giovane dottorando in antropologia della Columbia University. La sua fu però un’immersione dall’intensità che mai avrebbe potuto immaginare, nonostante la preparazione in materia di metodologia etnografica (o forse, paradossalmente, proprio in contrasto con quella). Le classiche forme di estraneità provate da antropologi e antropologhe sul campo divennero fin dal primo giorno forme specifiche di destabilizzazione, e non rimaneva che seguire il fil rouge di quello scombussolamento come ipotesi di ricerca. Belmonte arrivò a Napoli per raccontare una “fenomenologia della miseria”, la vita degli “strati profondi dell’esistenza dei quartieri poveri” e delle sue famiglie. Un approccio che, al di là di qualunque banale idea di “licenza letteraria”, avvicina antropologia e letteratura, tanto che nell’introduzione del libro decise di citare ​​D. H. Lawrence: “il romanzo è la più alta espressione della creatività umana, perché assolutamente incapace di assoluto. Etnografi e romanzieri farebbero bene a seguire questo appello a evitare con forza la tentazione della teoria pura”.

Nella prima parte del libro, Belmonte racconta l’approccio alla comunità locale, con la quale riesce a entrare a poco a poco in confidenza. Ma più si addentra nelle relazioni con queste persone, più il suo lavoro diventa complesso, confuso e frustrante.

Toccare con mano la vita di quella famiglia permetterà a Belmonte di lanciarsi in analisi delle dinamiche familiari e domestiche – incluso quella che lui definisce “centralità della madre e matriarcato” – non sempre convincenti, ma costantemente attraversate dall’ansia di stare al passo con gli eventi e le dinamiche generali di quei contesti. Per sua stessa ammissione, ne veniva sopraffatto:

Ho preso l’abitudine di barrare interi brani del taccuino con la scarna interiezione “macello!”, a significare che la situazione sfuggiva alla mia capacità di osservazione e non ero più in grado di seguire il diluvio di pugni e manate, le espressioni contratte e di dolore, le bestemmie, le urla, i mugugni.

L’epilogo del libro è amaro e malinconico, ma comunque non rinuncia alla liricità che lo contraddistingue – e che gli è valso l’accusa di esotizzare l’Italia e il Meridione:

Ecco la triste realtà che soggiace allo scintillante brulichio di superficie delle città mediterranee. Se i rapporti di produzione non suscitavano la solidarietà fra poveri, ci riuscivano la miseria e l’odio che la miseria produce. Ma l’odio non basta per organizzarsi, e le lezioni imparate dalla fame di rado allargano l’orizzonte di un uomo.


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