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It’s been a cesspit, really, my life

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In un intenso articolo, firmato da Emine Saner e pubblicato su The Guardian, dal titolo “It’s been a cesspit, really, my life’: war photographer Don McCullin on 19 of his greatest pictures” il fotografo Don McCullin racconta le più  importanti 19 fotografie della sua lunga carriera: ripercorrendo sette decenni di lavoro e la sua carriera di fotoreporter di guerra, riflette sul peso morale delle immagini e racconta come gli scatti abbiano segnato la sua vita personale e professionale.

War photographers are not meant to reach 90. “Fate has had my life in its hands,” says Don McCullin. Over his seven-decade career covering wars, famines and disasters McCullin has been captured, and escaped snipers, mortar fire and more. How does it feel to be a survivor? “Uncomfortable,” he says.

L’articolo si sviluppa come un viaggio visivo e narrativo: ogni immagine scelta diventa il punto di partenza per un aneddoto o una riflessione di McCullin, che non nasconde la durezza della sua esperienza. Il tono è crudo e onesto: il fotografo parla senza retorica della violenza che ha visto e del prezzo personale pagato per raccontarla. In più passaggi emerge una frase che riassume la sua franchezza:

“It’s been a cesspit, really, my life”

McCullin non si limita a descrivere le scene ma riflette sul ruolo morale del fotogiornalista. Documentare, per lui, è un atto necessario ma tormentato: le immagini servono a costringere il pubblico a guardare, ma non sempre cambiano il corso degli eventi. L’articolo mette in luce questa tensione tra l’urgenza di testimoniare e la consapevolezza dell’impotenza di fronte a strutture politiche e sociali che perpetuano la sofferenza.

Un altro filo ricorrente è l’impatto psicologico. McCullin parla di insonnia, di ricordi che non si cancellano e di una vita segnata da ciò che ha visto. La sua carriera è descritta come una lunga esposizione alla brutalità, e l’articolo non edulcora questo aspetto: il lettore percepisce la stanchezza e, insieme, la determinazione del fotografo a non voltarsi dall’altra parte.

Sul piano estetico, Saner esplora come McCullin abbia usato il bianco e nero, la composizione e la luce per restituire dignità alle vittime e gravità alle scene. Le fotografie non sono solo documenti storici ma anche scelte estetiche consapevoli, pensate per comunicare empatia e verità visiva. L’articolo sottolinea come, nonostante la brutalità dei soggetti, McCullin cerchi sempre di preservare la dignità umana nelle sue immagini.

Infine, il pezzo offre una riflessione più ampia sul valore del reportage: le fotografie di McCullin hanno costretto il pubblico a confrontarsi con realtà scomode, ma il fotografo stesso rimane scettico sulla capacità dell’immagine di risolvere ingiustizie profonde. L’intervista si chiude con un misto di amarezza e orgoglio: McCullin riconosce il prezzo personale della sua opera, ma difende la scelta di aver raccontato il mondo così com’è.


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