A cura di @NedCuttle21(Ulm).
Al XXXI Salone Internazionale del libro di Torino, Mattia Insolia, per il sito Mangialibri, e Giuseppe Fantasia, per l’Huffington Post, hanno incontrato lo scrittore svizzero Joël Dicker.
Ne La verità sul caso Harry Quebert fai una descrizione molto bella, attenta e profonda del mestiere dello scrittore, della figura del romanziere. Che significato dai alla scrittura? Perché hai deciso di scrivere? E com’è cambiato il tuo rapporto con la scrittura nel tempo, dopo tanto successo?
Tra il mio primo romanzo, La verità sul caso Harry Quebert, e il mio più recente, La scomparsa di Stephanie Mailer, sono trascorsi appena sei anni. È un periodo piuttosto breve e penso che sia ancora presto per capire cosa siano individualmente, credo piuttosto che, proprio per la vicinanza temporale che li lega, vadano considerati insieme. È tramite questi romanzi che mi chiedo cosa sia la scrittura. Mi sono fatto molte domande in proposito e una delle prime cose che mi vengono in mente è che sono più numerosi i libri che mi sono stati rifiutati di quelli che mi sono stati pubblicati. Quindi mi chiedo: “Sono più importante dal momento in cui i miei libri sono stati pubblicati e la gente mi riconosce per strada, o ero già un autore? Sono più importante io, che ho pubblicato, o è più importante un qualsiasi passante, che ha scritto ma non ha pubblicato nulla?” Se uno vuol diventare medico, pittore o calciatore si dedica a una formazione ben precisa. Lo stesso Zidane, ad esempio, per fare l’allenatore dopo essere stato un grande giocatore ha dovuto prendere una nuova strada, ricominciare tutto daccapo tramite una formazione diversa. Per diventare uno scrittore non c’è niente del genere. Niente che ti prepari in maniera tanto netta da poterti fare dire “Ecco: sono un autore”.
Immagine da Vimeo.
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