Fin dall’Ottocento sappiamo che i fondali oceanici contengono vaste quantità di «noduli polimetallici», piccole «palline» di minerali che contengono, fra gli altri, manganese, nickel e cobalto. Sfruttare questa risorsa è stata finora una prospettiva da fantascienza. Tuttavia la crescente fame di metalli, causata anche dalle nuove tecnologie, potrebbe far cambiare la situazione.
Le Nazioni Unite hanno deciso che l’estrazione dei noduli in acque internazionali dovrà essere regolata da un ente autonomo, l’International Seabed Association con sede a Kingston, in Giamaica. L’ISA, per ora, ha solo fornito concessioni per l’esplorazione di alcune parti del fondo marino, ma non ha ancora stilato un codice di condotta. Ci sono molti dubbi su questa attività: conosciamo ancora pochissimo dei fondali oceanici più profondi, e degli ecosistemi che, in mancanza di luce solare, gravitano attorno alle sorgenti idrotermali degli abissi. Ciò che è certo è che anche i noduli polimetallici ospitano una vasta varietà di microbi, e che gli scarti dell’estrazione sarebbero gettati in mare, disperdendosi su vasta scala. Per questo molti attivisti hanno proposto una moratoria di questa attività; gli imprenditori coinvolti rispondono che l’estrazione di noduli dal fondo non sarebbe più inquinante delle attività minerarie svolte a terra.
Tutte queste questioni erano finora restate sul piano teorico. L’ISA però contiene una norma per cui i paesi firmatari possono chiedere di finalizzare la stesura del regolamento entro due anni, per far partire queste attività. Nauru, un piccolo stato del Pacifico con 10.000 abitanti e 2000 ettari di territorio (peraltro devastato sia orograficamente che finanziariamente nel corso dello scorso secolo dall’estrazione di fosfati), ha deciso di far scattare questa clausola. Non manca più molto tempo, quindi, per decidere come regolare l’attività mineraria negli oceani.
Immagine: Abramax, Noduli di manganese.
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