Su suggerimento di @Spi.
Si può spiegare la teoria degli schemi ai biologi? David Mumford (eminente matematico americano, vincitore tra gli altri di una medaglia Fields, un premio Wolf e un premio Abel) se lo chiede in un post sul suo blog, dopo che Nature ha contattato lui e John Tate (altro eminente geometra algebrico e teorico dei numeri, anche lui vincitore di un premio Wolf e un Abel) chiedendo loro di scrivere un necrologio per Alexander Grothendieck. In seguito, tuttavia, la rivista ha rifiutato di pubblicarlo perché “decisamente troppo tecnico”.
Al di là del testo in sé, che è effettivamente ostico, vale la pena di porsi la domanda.
Tra i lavori più citati degli ultimi 20 anni di produzione di David Mumford ci sono “Hierarchical Bayesian inference in the visual cortex” (sul Journal of the Optical Society of America), “A stochastic grammar of images” e, più in generale, quasi solo articoli a cavallo tra la matematica, l’informatica e la biologia. Eppure nemmeno lui è stato in grado di spiegare il lavoro di un suo collega matematico ad un pubblico di scienziati puri, ma di un altro ambito, in modo almeno accettabile per una pubblicazione (i due autori dell’articolo, di certo, non ricevevano un rifiuto da una rivista da parecchie decadi). È anche vero che la scelta editoriale di chiedere un necrologio per il grande pubblico ad un 77enne e un 89enne, ormai troppo interni al mondo accademico, può essere opinabile: i due scienziati avranno probabilmente qualche difficoltà ad astrarsi dal mondo hanno vissuto per la maggior parte della loro vita.
In ogni caso, un lavoro estremamente astratto come quello di Grothendieck (e come sempre più la matematica sta diventando, in parte proprio come conseguenza dell’eccezionalità del suo apporto) non si potrà mai rendere in un formato abbastanza semplice da essere spiegato ad un pubblico non specialista – diciamo, al di fuori di matematica e della fisica teorica più moderna. Questo non vuol dire, ovviamente, che indirettamente prima o poi non avrà conseguenze sulle altre scienze e quindi sulla vita reale, è piuttosto probabile il contrario. Ma fino a quale punto possono le scienze specializzarsi prima che i danni di questa incomunicabilità superino i benefici di una maggiore profondità di analisi?
Una questione simile è stata affrontata con un punto di vista decisamente diverso da E. O. Wilson in un articolo del Wall Street Journal del 2013. Wilson è un professore emerito di Biologia ad Harvard, e ammette di avere solo una conoscenza di base di matematica, appresa dopo essere diventato professore a tempo indeterminato. Precisa anche che la maggior parte dei suoi colleghi anche brillanti sono semi-illetterati in matematica, e dà il suo avviso che per la maggior parte dei rami della biologia (e delle scienze in generale, ad eccezione di Fisica, Chimica e teoria dell’Informazione) questo non è un ostacolo. Anzi, esorta “giovani laureandi brillanti” a continuare nelle scienze senza paura dello scoglio della matematica che, semplicemente, non si presenterà mai loro, al di fuori degli esami che hanno già faticosamente superato.
Immagine da flickr
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