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Milano è bella ma non ci posso vivere

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In un articolo sul suo blog ospitato dal Post, Antonio Pascale ha intervistato Lucia Tozzi – studiosa e critica della città e dell’architettura che da anni scrive di Milano e non solo – chiedendole di portare un suo punto di vista sul «modello Milano».

Si parte con la considerazione che indubitabilmente EXPO ha cambiato Milano, permettendole di costruire un’immagine che non aveva mai avuto neppure negli anni ‘80; oggi  Milano è bella anche ufficialmente e gli abitanti che hanno i mezzi per godersela possono finalmente essere orgogliosi anche di questo, dopo anni di frustrazione. Anche se la città è relativamente piccola non si finisce mai di girarla per scoprire nuove bellezze.

Ma ci sono anche altri lati, la retorica del green nasconde il fatto che gli spazi verdi spariscono per lasciare il posto a uffici e case di lusso, le disuguaglianze aumentano e gli esclusi sono sempre di più.

Anche qua, decine di migliaia di famiglie sono da anni in lista per le case popolari, le file per un pasto caldo si allungano ogni mese che passa, e oltre ai veri indigenti se la passa malissimo anche tutto quell’ambiente di lavoratori dell’arte e della cultura che in teoria dovrebbe costituire l’anima creativa della città. Non solo la grande ricchezza, ma anche il lavoro normalmente pagato è concentrato nelle mani di pochi: gli altri sono working poors che fanno stage o lavoretti o passano il tempo a compilare faticosi bandi o aspettano esigui pagamenti a sei mesi, e chi non ha il supporto delle famiglie non riesce a pagare affitti sempre più alti. Per questo, per esempio, il paragone con la Milano da bere non regge, allora l’euforia piaccia o meno poggiava su una popolazione più ricca, i soldi circolavano.

Anche un articolo a più mani della testata Scomodo sostiene che la gestione dei servizi  abitativi a Milano va sempre peggio: la sproporzione tra l’offerta (2.214 gli alloggi pubblici disponibili, di cui 982 comunali e 1.032 di proprietà di Aler ) e la domanda (oltre 12.000 richieste effettuate nel 2019) rischia di essere amplificata da un eventuale sblocco degli sfratti e dai recenti sgomberi.

Da un lato, ai già 2.500-3.000 sfratti notificati tra il 2019 e il 2020 e bloccati dalla pandemia si aggiunge ora una considerevole componente di persone non più in grado di pagare il proprio affitto a causa della crisi dunque la rimozione del blocco sfratti adesso comporterebbe una richiesta ancora più elevata di alloggi pubblici a basso costo. Nonostante a livello regionale siano stati istituiti dei fondi per sostenere individui e famiglie qualora si trovassero in condizioni di morosità incolpevole, è comunque evidente che, visti i numeri poco sopra, il Comune, in caso di sblocco sfratti, non sarebbe in grado di rispondere all’esigenza presente, né tantomeno a quella di coloro che, da tempo, si trovano per strada. Dall’altro lato si trova invece chi ha occupato e chi, è stato sgomberato: tra i primi si potrebbero forse annoverare, almeno in parte, proprio coloro che per la già scarsa offerta comunale, trovatisi in condizioni di estrema necessità, hanno preso una scelta non giuridicamente corretta pur di non rimanere in strada; i secondi rappresentano invece coloro che, seppur autori di un atto illecito, si ritrovano ora senza una casa, impossibilitati a richiederne una di proprietà pubblica (uno dei requisiti per l’accesso è infatti proprio l’assenza di occupazione abusiva e sfratto da una casa popolare nei cinque anni precedenti la richiesta), in un periodo di piena emergenza abitativa, economica e sanitaria.

Immagine: Gerd Eichmann, Mailand (1985).


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