In un articolo pubblicato su Doppiozero, Alfredo Gigliobianco ci parla del libro Verso un’altra economia. Scritti per un futuro sostenibile, scritto dall’ economista statunitense Herman Daly.
Il lavoro di Herman Daly analizza gli errori commessi da economisti di primissimo piano riguardo al cambiamento climatico. William Nordhaus minimizzò l’impatto del cambiamento climatico affermando che l’agricoltura rappresentava solo il 3% della produzione nazionale, mentre Daly sottolinea come l’agricoltura sia essenziale per la sopravvivenza umana e che una sua riduzione avrebbe conseguenze significative sull’economia.
Ho iniziato a leggere il libro di Herman Daly, Verso un’altra economia. Scritti per un futuro sostenibile (a cura di Giandomenico Scarpelli, Carocci 2023) dal capitolo 23 (un vecchio vizio, questo di cominciare a metà, o magari alla fine, ma so di non essere il solo). Bene, comunque il capitolo 23 si intitola “Cambiamento climatico ed errori macroeconomici”; un titolo promettente, e in effetti queste pagine mordono, fanno anzi un po’ paura. Perché gli errori macroeconomici non li fanno dei novellini, ma degli economisti di primissimo piano, gente che poi avrebbe preso il Nobel. Sentite per esempio che cosa diceva William Nordhaus nel 1991, a proposito delle politiche da attuare per contrastare il cambiamento climatico: “L’agricoltura, che è la parte dell’economia sensibile ai cambiamenti climatici, rappresenta solo il 3 per cento della produzione nazionale. Ciò significa che non c’è alcuna possibilità che essa abbia un effetto molto grande sull’economia degli Stati Uniti”. Punto. Ora, vero che nel 1991 la scienza del clima non aveva ancora raggiunto le certezze che oggi abbiamo: l’Intergovernmental Panel on Climate Change era stato costituito solo da 3 anni, e il suo primo rapporto uscì nel 1990. Tuttavia, ammesso un certo grado di incertezza sulla dimensione del fenomeno, ciò che indigna giustamente Daly è l’argomentazione messa in campo da Nordhaus per minimizzare il problema: solo il 3 per cento. Vero. Ma la produzione agricola non può essere paragonata a qualsiasi altro “pezzo” della nostra economia, perché senza agricoltura non si mangia. Nel gergo degli economisti, questo si dice così: la domanda di prodotti agricoli è particolarmente anelastica. Il che vuol dire che una consistente riduzione dell’offerta spingerebbe i prezzi alle stelle.
L’articolo solleva interrogativi riguardo alla sostenibilità della crescita economica e invita a una riflessione critica sul concetto stesso di crescita. L’ossessione per la crescita del PIL (Prodotto Interno Lordo) come sommo bene porta alla conseguenza che più si cresce in termini di uso di risorse e produzione di scarti, più ci avviciniamo alla finitezza del sistema Terra. La Terra ha una massa finita e una capacità limitata di assorbire gli effetti della crescita economica. Pertanto, l’idea di crescita illimitata è insostenibile a lungo termine.
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