Il Guardian pubblica un articolo in cui riporta e commenta un caso giudiziario britannico che tocca i rapporti tra diritto di espressione e “hate speech”.
Una persona era stata avvertita dalla polizia che i suoi interventi sui media sociali erano stati denunciati come “hate speach” da altri utenti, e che perciò erano stati registrati sul suo profilo pur non essendo reati. La sentenza del tribunale ha dato ragione alla persona, con la motivazione che
the … guidance that the police should record all non-crime hate incidents, as perceived by those taking offence at them, is an unlawful incursion on citizens’ freedom of expression.
La linea seguita dalla polizia era stata adottata in seguito ai risultati di una indagine del 1999 che aveva riscontrato la presenza di un razzismo istituzionalizzato nelle forze di polizia, con la conseguenza che era stato deciso di definire “incidente razzistico” ogni forma
perceived to be racist by the victim or any other person” and that non-crime incidents should be reported, recorded and investigated with equal commitment to crimes.
In seguito, questa linea era evoluta fino ad includere come “non-crime hate incidents “ alcune delle caratteristiche previste nello Equality Act, compresa l’identità di genere, così che ai poliziotti veniva prescritto come “incidenti di odio” anche “all those perceived by the person reporting them as motivated by hostility, including unfriendliness or dislike.”
Le conclusioni dell’articolo, che precisa come la persona che ha ottenuto giustizia appartiene ad un movimento contrario alla linea del giornale, sono che
Telling the police to record all non-criminal hate incidents or to believe all victims despite their role as investigators are inappropriately blunt approaches that undermine fair and impartial policing.
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