Alberto Grandi su Il Post nella rubrica Storia/Idee, partendo da una polemica che l’ha coinvolto, fa un’analisi di come il discorso sul cibo in Italia abbia perso il senso della realtà per assumere una dimensione quasi mitologica.
Il problema non è stabilire la data di nascita del Parmesan del Wisconsin, o di sapere se nella carbonara ci vada il guanciale o la pancetta. Il problema è capire in che modo questi temi, che al massimo potrebbero interessare una manciata di casari dalle parti di Parma e qualche ristoratore di Trastevere, siano diventati l’elemento identitario più forte nell’Italia del XXI secolo.
Una dato palesemente falso come la filiera produttiva che varrebbe 500 miliardi viene ripetuto in ogni occasione:
L’ipertrofica dimensione attribuita alla produzione agroalimentare italiana è il segnale di una distorsione rappresentativa, che per alcuni è solo un errore di valutazione e magari per altri potrebbe essere un auspicio, ma in ogni caso non è la realtà. L’Italia non è un’immensa azienda agricola che produce cibi meravigliosi per un gigantesco ristorante nel quale tutti gli abitanti della Terra vorrebbero poter pranzare. …
se si analizzano i conti con l’estero la bilancia commerciale italiana nel settore agroalimentare ha fatto segnare piccoli avanzi solo nel biennio 2020-21, a causa del rallentamento complessivo dovuto al Covid-19, per poi tornare in deficit nel 2022, come è sempre stata. Insomma, il mondo può fare a meno di noi, mentre noi non possiamo fare a meno del mondo.
E quello che si esporta ha poco a che vedere con tipicità e tradizione:
una nota crema spalmabile alle nocciole (il cui primo ingrediente è lo zucchero e il secondo l’olio di palma), un condimento industriale a base di aceto, mosto e caramello, un vino spumante che si produce in quantità industriali dentro autoclavi in acciaio tra Veneto e Friuli, una famosissima marca di pasta con sede sulla via Emilia e così via… Per dire, la casa che produce la suddetta crema spalmabile esporta da sola circa 9 dei 50 miliardi del Made in Italy agroalimentare, mentre il Parmigiano Reggiano, che il mondo ci invidia, non arriva a 725 milioni.
Per decenni i media e in particolare la televisione hanno creato le condizioni sia del cambiamento reale sia dell’invenzione della tradizione. Offrendo a politici e produttori, ugualmente interessati anche se con finalità diverse, una base inaspettata per un racconto tanto emozionale quanto lontano dalla realtà e dalla sua storia.
Per Grandi tutto nasce con gli anni ’70 in cui in Italia, come in tutta Europa la voglia nuovo e di industria entra in crisi.
Ma se nei paesi con più solide radici liberali e con un capitalismo più maturo questa crisi diventò l’opportunità per investire e trasformare le proprie strutture produttive, senza compromettere l’adesione a un’idea di progresso basata sull’innovazione e sulla ricerca, in Italia la crisi degli anni Settanta mise in discussione il ruolo stesso dell’industria come fattore di crescita non solo economica, ma anche sociale e culturale.
Nasce così l’idea mitica di un’età dell’oro da riscoprire e e da preservare senza tener conto della realtà.
Si continua a scambiare la causa con l’effetto: l’Italia non è ricca perché vi si produce la caciotta di Pienza, ma l’esatto contrario: si può produrre la caciotta di Pienza perché l’Italia è un paese ricco. Continuare a raccontarsi dell’importanza di un settore enogastronomico tutto concentrato non sull’innovazione, ma al contrario sulla conservazione e sull’invenzione narrativa a scopo turistico è in fondo l’ennesima scorciatoia che ci porta a un vicolo cieco.
Anche jigen segnala lo stesso articolo de Il Post, ricordando l’intervista ad Alberto Grandi sul Financial Times: Le riflessioni sull’origine dell’approccio irrazionale italiano al proprio cibo, fatte da Alberto Grandi, il professore esperto di storia della cucina italiana che cura il podcast D.O.I. (Denominazione d’origine inventata) e che è stato oggetto di pesanti critiche per la sua intervista al Financial Times.
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