Oggi troviamo ovvio che le vittime di persecuzioni e massacri cerchino di mobilitare l’opinione pubblica internazionale in loro favore. Le origini di questo comportamento risalgono al XVII secolo, come racconta David de Boer, autore di un recente libro sul tema, sulle pagine di The Conversation.
Nel contesto delle guerre di religione europee succedeva spesso che delle minoranze fossero costrette a fuggire all’estero. Normalmente, in questi casi, gli esiliati richiedevano la solidarietà di qualche potere pubblico che professava la loro stessa religione. La diffusione della stampa, però, offrì l’opportunità di raccogliere supporto su una base più ampia, diffondendo pamphlet, libri e immagini. In questo contesto, oltre che mobilitare i correligionari, si rendeva possibile richiamarsi a valori più ampi di compassione e umanità, che permettevano di travalicare i confini confessionali. De Boer fa l’esempio delle persecuzioni dei Valdesi in Piemonte, che suscitarono la reazione politica e diplomatica di potenze protestanti come le Province Unite, l’Inghilterra e i cantoni riformati svizzeri (risale a quel periodo una celebre poesia di Milton ), senza però rompere i canali di dialogo con la Francia cattolica e i Savoia. Quando oggi Israeliani e Palestinesi cercano di mobilitare l’opinione pubblica mondiale, si rifanno a strategie sperimentate già quattro secoli fa.
Moving to print required displaced people to reassess their strategies, as they now had to think more carefully about the diverse audiences they would inevitably reach. In a tempestuous political landscape marked by religious tension, volatile alliances and incessant war, the safest and most far-reaching way to attract support was to highlight one’s suffering without alienating other religious groups in the process. Abused minorities and their advocates therefore increasingly avoided framing their hardship in religiously polarising terms. Instead, they adopted a more universal rhetoric of compassion, appealing to the rule of law and a sense of shared humanity. This shift in rhetoric would ultimately allow humanitarian engagement to transcend the religious divisions from which it had emerged. (…)
While it cannot solve a crisis on its own, public attention can be instrumental in highlighting, challenging and preventing atrocities. As early modern Europeans already realised, mass violence thrives on the silence of the press.
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