Corrado Antonini su Doppiozero si occupa dei bio-pic musicali, utilizzando la figura di Amy Winehouse come esempio.
L’autore riflette su come questi film, che ricreano le vite di musicisti famosi, abbiano sviluppato una propria estetica e morale, diventando un genere cinematografico a sé stante. Il pezzo sottolinea che il successo di questi film non dipende tanto dalla trama, spesso già nota, ma dalla scelta dell’interprete principale e da come viene rappresentata la vita del protagonista. Questo genere riesce a catturare l’attenzione del pubblico grazie alla sua capacità di evocare emozioni profonde e di celebrare l’arte e la vita dei musicisti, nonostante le loro vicissitudini personali.
Amy Winehouse è stata una cantante e cantautrice britannica, nota per la sua voce potente e distintiva, nonché per il suo stile musicale che mescolava elementi di jazz, soul e R&B. Nata il 14 settembre 1983 a Londra, è diventata famosa a livello internazionale con il suo secondo album, “Back to Black”, pubblicato nel 2006. Questo album include successi come “Rehab” e “You Know I’m No Good”. Winehouse ha ricevuto numerosi premi, tra cui cinque Grammy Awards, ma la sua carriera è stata anche segnata da problemi personali e di dipendenza. Purtroppo, è morta il 23 luglio 2011 all’età di soli 27 anni.
L’autore riflette sul metro con cui si giudica un bio-pic musicale:
Ciò che si valuta è il grado di adesione all’originale, proprio come viene chiesto al regista e all’interprete di un bio-pic musicale. Il metro di giudizio sulla bontà di un prodotto del genere, spacciato per artistico o culturale, è in buona parte questo: la verosimiglianza della copia rispetto all’originale.
L’ultimo bio-pic su Amy Winehouse secondo l’autore è una perfetta copia conforme:
Back to black, il recente bio-pic sulla vita della cantante inglese Amy Winehouse, in questo senso è una copia pienamente conforme. Marisa Abela, l’attrice che interpreta la cantante, è brava assai nel restituire una versione plausibile di Amy (quanto plausibile è materia per chi l’ha effettivamente conosciuta, e per i fans). Ciò che ne rappresenta paradossalmente anche il limite, dal momento che al talento e all’arte interpretativa non viene offerto altro sbocco se non quello di farsi copia il più aderente possibile all’originale. Vale per Back to black ma vale per la stragrande maggioranza dei bio-pic musicali prodotti di recente.
Così scrive Antonini:
Ciò che dobbiamo sapere di un artista sta nella sua storia, ci dicono i bio-pic musicali, ossessionati come sono dallo storytelling. Non è detto che sia sempre così. Le canzoni, quando partono nel film su Amy Winehouse, pare assolvano la sola funzione di illustrare poeticamente ciò che ci è stato raccontato nel quadro di vita precedente. Della serie: adesso ti spiego come si trasferisce sul piano artistico il frammento di vita che hai appena visto. Ma la trasposizione filmica della vita di Amy Winehouse all’appassionato può anche apparire come l’equivalente di una successione di flash scattati dai paparazzi. Un’altra forma di voyeurismo, a ben vedere. Usare le canzoni di Amy Winehouse come espediente di storytelling è certo qualcosa che aiuta la sceneggiatura, ma il fatto artistico dovrebbe sempre essere un fuoco che brucia la realtà, non è compito suo raccordarne i lembi. Da un’opera d’arte ci si aspetterebbe lo strappo, non il ricamo, mentre questo film addomestica la creazione artistica plasmandola alla necessità del plot. E purtroppo questo è quanto accade in troppi bio-pic.


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