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Speciale Cheese: Il Mediterraneo dei fotografi e dei viaggiatori

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Questo numero speciale di Cheese, la nostra vecchia rubrica di fotografia passata da tempo a miglior vita, prende le mosse dallo speciale bhookii (Mediterraneo, mediterranei) uscito poco tempo fa e si appoggia a un bell’articolo di Daniela Tartaglia apparso su PhotoLux Magazine e intitolato Il mediterraneo dei fotografi e dei viaggiatori.

L’articolo indaga il rapporto tra viaggio e immagini fotografiche e rivela come il Mediterraneo sia stato fin dall’inizio meta prediletta dei viaggiatori e soggetto fotografico di grande fascino.

Nata dall’anima laica dell’Illuminismo la fotografia ha stabilito infatti, fin dalla sua nascita, un rapporto molto stretto con il tema dell’esplorazione del mondo e del viaggio. Viaggio che, a partire dalla metà del Settecento e durante tutto il corso dell’Ottocento, non sarà più solo appannaggio di mercanti, pellegrini, aristocratici, diplomatici o personaggi della futura classe dirigente ma allargherà le sue file anche ad intellettuali, letterati, artisti e musicisti (C. De Seta, 1997).

Nell’Ottocento la fotografia divenne un elemento fondamentale del viaggio, strumento tecnologico indispensabile per scoprire un nuovo modo di guardare al mondo e per  offrire a coloro ai quali non era concesso il piacere dell’esplorazione di godere di rappresentazioni fedeli di tutto quello di cui il fotografo era stato testimone.

Culla dei miti e luogo della storia per eccellenza, il Mediterraneo, fin dai primi anni dell’invenzione della fotografia, divenne una delle mete privilegiate dei viaggiatori e anche uno dei soggetti preferiti della rappresentazione fotografica. Nel novembre 1839, appena sei mesi dopo l’annuncio di Daguerre, il pittore Horace Vernet arrivò in Egitto con Fréderic Goupil-Fesquet per realizzare la prima campagna di documentazione fotografica. Entro l’anno venne completata anche la documentazione in dagherrotipia di Gerusalemme e a seguire quella di Nazareth e di San Giovanni d’Acri.

Gli album fotografici dei viaggiatori contenevano sia fotografie scattate durante il viaggio che altre acquistate negli studi fotografici dei professionisti che si trovavano ormai con facilità.

Lo straordinario patrimonio iconografico contenuto negli album fotografici scampati alla distruzione e alla dispersione riporta alla memoria un passato vagheggiato ma ormai scomparso per sempre, il ricordo di un Mediterraneo e di un vicino Oriente, bellissimi e metafisicamente vuoti, sospesi nel tempo, dissolti ma ancora capaci di rinnovellare il mito e la nozione stessa del viaggio.

Il lento modo di viaggiare ottocentesco restituiva nelle fotografie il silenzio dei luoghi, raggiunti spesso superando grandi difficoltà grazie a spedizioni dall’esito incerto.

Dal sito del Senato della Repubblica Il Mediterraneo dei primi fotografi:

La fotografia, non appena i progressi tecnici lo permisero, divenne poco a poco il miglior mezzo per rivelare il Mediterraneo, la sua diversità, ma anche la sua profonda unità. Fino ad allora se ne era avuta una visione molto frammentaria per non dire fantasiosa. Infatti un’incisione inglese della fine del XVIII secolo presentava il luogo di Giza con venti grandi piramidi. La fotografia rappresenta una riproduzione inconfutabile della realtà, ripresa d’après nature. Non sono solo i luoghi ad essere riprodotti, ma anche la luce del momento. Ed è con stupore che lo spettatore scopre che può vedere queste immagini sia altrove, sia in tempi diversi.

La fascinazione del Mediterraneo è visibile nel lavoro di Wilhelm von Gloeden, fotografo tedesco ottocentesco che si trasferì nel sud Italia per ragioni di salute. Lo ricorda Barbara Meletto sul suo blog.

Nel Sud baciato dalla luce del sole, von Gloeden riannodò le trame degli antichi miti che avevano popolato quella regione nel passato: l’aspirazione nostalgica ad una fusione panica con l’armonica bellezza del Mediterraneo.

Le sue fotografie contribuirono a disegnare un’immagine della Sicilia che restituiva l’idea di un’arcadia romantica:

Le sue fotografie, studiate fin nei minimi dettagli, ci restituiscono l’impronta di una Sicilia edenica e fortemente romantica, ideale che presto si affermò nell’immaginario collettivo. Grazie al lavoro di von Gloeden, Taormina divenne la meta prediletta del turismo internazionale, anche per mezzo delle numerose cartoline illustrate tratte dalle sue foto. Da quel momento poeti, artisti, scrittori, aristocratici e benestanti di tutta Europa, la scelsero come destinazione per i propri viaggi di cultura, di svago o di lavoro.

I nudi maschili erano uno dei soggetti prediletti da Wilhelm von Gloeden:

Le scenografie abilmente costruite, suggerenti una leggendaria antichità classica, contribuirono a moderare il forte impatto sessuale dei suoi nudi, accettati senza troppi problemi dagli abitanti che posavano per lui. I nudi di von Gloeden erano infatti sottomessi ad un superiore ideale estetico: l’idea di un bello assoluto, rivissuto attraverso i corpi dei giovani isolani.

Nel novecento si affermò invece un fotografo italiano che è stato influenzato dall’ambiente mediterraneo e che si richiamava all’antichità classica: il napoletano Mimmo Jodice. Arte.it presenta un tour espositivo dedicato qualche anno fa agli scatti in bianco e nero del progetto Mediterraneo, uno dei suoi lavori più conosciuti:

Chi colleziona i suoi scatti sostiene di percepire, guardando le sue foto, il rumore del mare calmo, il fragore delle onde, le pietre dei monumenti che parlano di passato. E in effetti, le forza delle immagini di Mimmo Jodice è tutta racchiusa in quella sua eccezionale capacità di documentare la realtà elevandola a una dimensione estetica di suggestiva bellezza.

ArTribune lo ha intervistato:

Di solito parto da un progetto. Arrivo sul luogo e osservo, senza scattare, fino a quando la luce non è perfetta. Solo quando mi sento vicino a quello che vedo arriva lo scatto. Tutte le foto che ho realizzato mi appartengono perché sono emozioni vere che riporto sulla carta, sono cose che vivo. Nella mia fotografia ci sono due cose importanti: il progetto e l’attenzione assoluta per la luce. Non sono mai andato in giro con la macchina fotografica al collo, ho sempre fotografato quando avevo già dei progetti, ma oggi vorrei avere tutte le foto che ho fatto con gli occhi. Vorrei tanto averle fatte, mi piacerebbe recuperarle in qualche modo dalla memoria.

Il Mar Mediterraneo come soggetto fotografico riporta alla mente anche Luigi Ghirri, fotografo di viaggio e di visioni legate all’ambiguità del paesaggio contemporaneo. Le fotografie di mare di Luigi Ghirri spesso catturano la tipica malinconia felliniana, con il mare in secondo piano rispetto alla spiaggia o fotografato in inverno, lontano dai clamori estivi. La sua continua ricerca della metafisica attraverso l’obiettivo ha lasciato un’impronta significativa nella storia della fotografia. Collateral per Behind the artwork pubblica un articolo di approfondimento sulla fotografia di Luigi Ghirri:

L’operazione di indagine visiva attuata da Luigi Ghirri (1943-1992) è lucidamente espressa nel suo celebre libro “Lezioni di fotografia”: un punto di riferimento senza tempo rivolto a coloro i quali vogliono avvicinarsi a questo mondo. Il riconoscimento di questo grande artista italiano è avvenuto tardi e maggiormente a livello internazionale, dove sicuramente la cultura visiva era più abituata a una dimensione innovativa oltre che tradizionale. L’apparente semplicità dei suoi scatti nasconde invece la complessità del rapporto tra l’immagine e l’ambiente circostante e possiamo definire la sua attitudine sia di tipo contemplativo, sia elementare ed evocativa.

La fotografia del Mar Mediterraneo ha affascinato molti artisti nel corso della storia, ma la sua relazione con la costa africana è particolarmente interessante. Il mezzo fotografico ha raggiunto le coste dell’Africa occidentale subito dopo la sua invenzione e gli operatori africani erano attivi già dal 1860. Sebbene non siano tutti noti a livello internazionale, ci sono stati molti talentuosi fotografi africani che hanno documentato la vita e la bellezza delle coste mediterranee africane.

Seydou KeïtaMalick Sidibé e Samuel Fosso sono tre fotografi africani celebri le cui opere sono state esposte nella mostra fotografica “Ritratti Africani”.
La mostra, curata da Filippo Maggia, si è tenuta lo scorso anno presso il Magazzino delle Idee a Trieste. Questi artisti hanno documentato l’Africa di rinascita e la ricerca della propria identità attraverso immagini di straordinaria bellezza. Le loro fotografie raccontano le aspirazioni sociali dei soggetti fotografati, immergendosi in una realtà culturale, politica ed economica distante da quella occidentale.

Potremmo azzardare una sorta di staffetta fra i tre artisti, Keïta attivo negli anni che precedono l’indipendenza del Mali (avvenuta nel 1960), Sidibé che vive e racconta gli anni immediatamente successivi all’indipendenza, Fosso che nasce negli anni in cui diversi Paesi africani raggiungono l’indipendenza. Una staffetta che riscontriamo anche nei contenuti delle loro immagini, come se il filo narrativo tracciato da Keïta alla fine degli anni Quaranta avesse poi trovato un suo percorso evolutivo che corre di pari passo con la progressiva conquista e manifestazione di una consapevole africanità, segno distintivo che leggiamo nei loro ritratti, che non casualmente divengono autoritratti in Fosso. Il ritratto, appunto, caratteristica peculiare della fotografia africana. Come la “street photography” è riconducibile alla fotografia americana e la fotografia di paesaggio è indissolubilmente legata alla tradizione italiana, il ritratto è certamente stato per tutto il secolo scorso e, evolvendosi nel suo significato, in buona parte anche in quello attuale, il genere prediletto da molti fotografi africani. Ragioni storiche, politiche, sociali e religiose sono alla base di questa pratica perseguita con costante assiduità da nord a sud, da ovest a est del terzo continente per estensione del nostro pianeta. (Filippo Maggia, dal catalogo di mostra).

E voi? Qual è il vostro Mediterraneo?


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