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Casalinghe del capitale

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Silvia Gola, nell’articolo de Il Tascabile dal titolo: Casalinghe del capitale esplora il fenomeno delle catene globali del lavoro di cura, in cui assistenti familiari e collaboratrici domestiche – perlopiù donne migranti e di etnia diversa da quella del Paese dove lavorano – svolgono un doppio ruolo di madri a distanza e lavoratrici precarie. Queste donne lasciano le proprie famiglie per prendersi cura delle case e dei figli altrui, consentendo ad altre madri di accedere al mercato del lavoro salariale.

Secondo Silvia Federici, autrice del saggio Il punto zero della rivoluzione (2014) è proprio l’immensa mole di lavoro domestico, retribuito e non, che mantiene in movimento l’economia globale, concetto ribadito anche da Stefania Prandi, autrice del reportage Le madri lontane (2024), quando analizza il segmento delle braccianti rumene e bulgare:

“casa propria” è il posto da abbandonare e “casa degli altri” rappresenta la forma di reddito

Il concetto di “catene globali della cura”, descritto dalla sociologa e docente statunitense Arlie Russell Hochschild, descrive come il lavoro di cura venga appaltato e subappaltato tra donne di classi e origini diverse. Le condizioni di lavoro sono spesso estenuanti: orari lunghi, salari bassi, abusi non denunciati per paura di perdere il posto o di espulsione. A questo si aggiunge il “lavoro d’amore”, in cui la componente emotiva diventa un ingrediente obbligato dell’attività professionale, rendendo ancora più difficile separare sfera privata e rapporto di lavoro.

le lavoratrici gergalmente chiamate “colf” e “badanti” sono spesso donne migranti che si ritrovano in una posizione di doppia subordinazione, se non tripla: da un lato la precarietà lavorativa, dall’altro la dipendenza economica e legale dai datori di lavoro. E, non da ultimo, subiscono anche le conseguenze della discriminazione di genere.

Negli anni Settanta il femminismo radicale mise al centro il lavoro domestico non retribuito come forma storica di subordinazione femminile. Nel 1972 Mariarosa Dalla Costa, Selma James e Silvia Federici lanciarono la campagna internazionale per il salario al lavoro domestico, riconoscendo la famiglia come luogo di produzione e riproduzione della forza-lavoro. Gisela Bock e Barbara Duden, nel loro saggio Lavoro d’amore – amore come lavoro (2024), hanno poi mostrato come lo sfruttamento domestico non sia un residuo arcaico, ma un pilastro dell’accumulazione capitalistica sin dall’industrializzazione.

Il femminismo marxista è qui al suo massimo dispiegamento: prende l’analisi marxiana della produzione e la porta fuori dalla fabbrica, mostrando come proprio attraverso il lavoro domestico e di cura può rigenerarsi, giorno dopo giorno, la forza-lavoro necessaria al sistema produttivo. La riproduzione degli esseri umani è la condizione fondamentale della produzione di merci.

Con l’ingresso massiccio delle donne dei paesi ricchi nel mercato del lavoro e il ritiro dello Stato dal welfare, la cura si è “de-familizzata”, per usare il termine della scrittrice e medica Maria Mezzatesta, affidata a lavoratrici migranti che sostituiscono le casalinghe native. Il capitalismo ha scoperto che queste donne sono “casalinghe del capitale” utilizzabili fuori dalle mura domestiche, ampliando le disuguaglianze lungo assi di genere, razza, classe e cittadinanza. In questo sistema, il lavoro di cura rimane percepito come “naturale” per le donne, nonostante sia altamente mercificato e sottopagato.

Dal 2000 al 2022 l’occupazione nel lavoro domestico in Italia è cresciuta del 30%, ma oltre la metà dei contratti è irregolare e un quarto delle collaboratrici lavora meno di 20 settimane all’anno. Le regioni del Nord-Est e la Sardegna mostrano tassi più alti di emersione, mentre altrove l’irregolarità domina. Le misure di regolarizzazione adottate (2020) hanno avuto effetti di breve durata e le successive normative (legge 33/2023 e decreto 29/2024) hanno parzialmente ridimensionato le tutele inizialmente previste.

le collaboratrici familiari e le assistenti familiari restano in larga parte escluse dalle misure rivolte ai lavoratori, in nome della “specificità” del lavoro svolto e della natura privata del rapporto, e il risultato è una forza-lavoro fragile, poco tutelata, spesso invisibile, in balia di progressivo invecchiamento per mancanza di fisiologico turnover generazionale.

Il lavoro domestico e di cura sostiene gran parte del welfare italiano, con famiglie che spendono circa 7,2 miliardi di euro per badanti e risparmiano allo Stato 17,2 miliardi di spesa per l’assistenza in struttura. Eppure rimane delegato al privato e alle donne, generando disuguaglianze strutturali. Organizzare queste lavoratrici è una sfida politica e teorica: serve costruire alleanze tra donne migranti e native, ripensare strumenti come lo sciopero domestico e politizzare la casa come luogo di lavoro collettivo


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