Il Tascabile pubblica un estratto da Lo stradone, l’ultimo romanzo dello scrittore e architetto romano Francesco Pecoraro.
Il ragazzo coi capelli lunghi, gentile, fortemente improfumato, che viveva qui nel casamento col padre e faceva saltuari lavori di imbianchino, adesso si è unito alla gente senza casa seduta sulle soglie dei negozi chiusi. Per un po’ ci siamo salutati, poi ha smesso di rispondermi, poi ho smesso di salutarlo, perché ho capito che si vergognava. Che fine vuoi che faccia, qui nell’idiozia grigia e depressa di questi casamenti, svaccato al riparo dei balconi doo Stradone, se non buttarsi sulla Peroni di base o sul Tavernello? L’altro giorno una co-inquilina mi racconta che il ragazzo ormai vive per strada, cioè nel parco qui vicino. Morto il padre pensionato, non riusciva più a pagare l’affitto, l’ente proprietario della Palazzata l’ha sfrattato, ma lui è restato nei pressi. A differenza dell’alcolica che urlava e buttava la madre a passare la notte sul pianerottolo, il dramma del ragazzo improfumato si è consumato silenziosamente, nessuno ne ha saputo niente e chi sapeva si faceva i cazzi suoi. Farsi i cazzi propri è virtù suprema—continuamente enunciata e ribadita e prescritta e ufficialmente normata—di questa metropoli che, con l’eccezione fulgida delle borgate storiche, è sempre stata prevalentemente di anima piccolo-borghese, in particolare di questo quartiere, dove si può vivere una vita senza sapere come si chiama il vicino di pianerottolo. Il che mi sta benissimo.
Immagine da Wikimedia.
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