Nonostante enormi forniture di armi e consulenze, prima dall’URSS e oggi dall’America, gli eserciti arabi non hanno mai brillato per efficacia. Già vent’anni fa Norvell De Atkine, colonnello in pensione dell’esercito americano, dopo otto anni di servizio nell’area affidava la sua frustrazione alle pagine del Middle East Quarterly, incolpando la cultura araba e la rigidità dell’addestramento sovietico.
Kenneth Pollack dell’American Enterprise Institute, molti anni dopo, tornava sull’argomento raccontando che anche i russi avevano avuto motivo di sentirsi frustrati: più di una volta le loro obiettivamente rigide dottrine vennero eseguite come leggi inflessibili, senza capirne il senso e vanificandone gli effetti. I militari americani, a loro volta, hanno gettato miliardi nel vano tentativo trasformare battaglioni arabi in corpi di marines.
Andrew Exum, ex sottosegretario alla difesa USA per il Medio Oriente, nel 2019 sosteneva una posizione leggermente diversa: alcuni eserciti arabi hanno fatto buoni progressi negli ultimi anni, ma in molti casi si sono concentrati su armi e tattiche poco utili per le loro reali necessità; un riorientamento degli sforzi li renderebbe più adatti a coordinarsi efficacemente con l’esercito degli Stati Uniti.
E anche l’italiano Istituto per gli studi di politica internazionale, nel 2017, pubblicava una serie di case studies (in inglese) sullo stato di vari eserciti arabi.
Of course, the danger of helping your partners create independent military capabilities is that, if you succeed, you’ve helped your partners create independent military capabilities. They may use their newfound capabilities, from Yemen to Libya, in support of strategic aims that diverge from your own.
— Immagine: Wikimedia Commons
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