Alcuni articoli, tra cui tre del sito Pandora Rivista provano a spiegare l’attuale Afghanistan.
Il primo partendo da un quadro storico ed etnografico, cerca di spiegare i fallimenti nella nation building dell’Afghanistan e perché il paese non si sia modernizzato.
Non si può creare la Svizzera o l’Inghilterra senza la società civile occidentale, i partiti politici, i sindacati, gli stakeholder, nonché in mancanza di un’evoluzione secolare delle forme statali.
Il secondo incentrato sulle risorse minerarie racconta l’ennesimo caso di un paese potenzialmente ricco ma estremamente povero.
Come ci ricorda la letteratura economica sullo sviluppo, la gestione (più che il mero sfruttamento) delle risorse è un fattore dirimente nella traiettoria di modernizzazione di un Paese arretrato ma ricco di capitale naturale.
Nel 2010, un memorandum interno del Pentagono ripreso da giornali statunitensi riteneva che l’Afghanistan «potesse diventare uno dei più grandi centri minerari del mondo» e che, grazie alle sue riserve potesse essere considerato come “l’Arabia Saudita del litio”.
I risultati dimostrarono la presenza non solo di 1,4 milioni di tonnellate di terre rare (il deposito di Khanneshin nella provincia di Helmand, all’epoca una roccaforte dei talebani, è ad esempio ritenuto il più grande giacimento a livello mondiale), ma anche di 60 milioni di tonnellate di rame, 2,2 miliardi di tonnellate di ferro, gemme preziose e altri metalli non ferrosi, per un valore stimato tra 1 e 3 trilioni di dollari, secondo le stime più recenti.
La difficile situazione politica e l’instabilità dovuta al perenne conflitto non hanno permesso di gettare le basi per il fiorire delle attività economiche.
«I talebani siedono ora su alcuni dei più importanti minerali strategici del mondo», ha dichiarato Rod Schoonover, a capo del programma di Sicurezza Ecologica del Council on Strategic Risks, think tank di Washington. Ma rimane da capire «se potranno o vorranno utilizzare» queste risorse alla base dell’economia del futuro. È evidente che i talebani o qualsiasi gruppo ribelle non possiedano i capitali e il know-how sufficienti per realizzare ciò che due superpotenze come Unione Sovietica e Stati Uniti, in periodi storici differenti ma accumunati da simili scenari di instabilità, non sono riusciti a portare a termine. La ritirata repentina delle forze militari statunitensi ha tuttavia lasciato un vuoto politico che la Cina – considerando gli asset finanziari e industriali che possiede nel settore minerario – potrebbe sfruttare.
Anche sul piano commerciale resterebbero dei punti interrogativi. Il crescente monitoraggio sul piano finanziario e normativo nei confronti delle aziende globali coinvolte nel settore potrebbe ostacolare la portata delle attività delle state-owned enterprises operanti in Afghanistan in collaborazione con i talebani. Il 10 gennaio 2021 è entrato in vigore il Regolamento 2017/821 Conflict Affected and High Risk Areas con il quale l’UE monitora che le importazioni non provengano da aree afflitte da guerre e che siano commerciate in linea con le politiche europee relative alla prevenzione dei conflitti armati e al sostegno allo sviluppo. Un discorso simile vale per gli Stati Uniti.
Sullo stesso argomento un articolo dell’Huffpost Italia espone i motivi per cui gli USA non sono riusciti a sfruttare la miniera di tesori afghani nonostante l’importanza strategica di alcune materie prime presenti nel sottosuolo del paese centroasiatico.
“Gli investimenti nell’industria estrattiva, che hanno un grande potenziale, sono stati frenati dalla crescente insicurezza”, ha scritto in un recente report il Fondo monetario internazionale.
Come scrive nel suo rapporto del 2018 l’agenzia geologica del governo americano, l’Afghanistan potrebbe essere ben lontana dallo sviluppare la sua industria mineraria “a causa del deterioramento della sicurezza, l’incertezza politica, la carenza di infrastrutture”.
Il primo problema a cui vanno incontro le imprese estrattive è chiaramente quello legato alla sicurezza. Ma ci sono anche altri fattori determinanti che hanno scoraggiato gli investimenti. “Diverse aree dell’Afghanistan vanno incontro periodicamente a carenze d’acqua, che è bene indispensabile in molti processi di trasformazione e raffinazione dei minerali”, continua Prina Cerai. “Il settore è uno dei più energivori e la penuria d’acqua come l’assenza di una adeguata infrastruttura elettrica sono fattori molto limitanti per progetti su scala industriale. A questo bisogna aggiungere la quasi totale assenza di infrastrutture di trasporto che praticamente isola il Paese”.
Il risultato è che l’Afghanistan, con metà della popolazione sotto la soglia di povertà, è ancora incapace di trarre frutto dalle sue immense risorse e per tirare avanti ha bisogno di ingenti aiuti stranieri a sostegno della sua economia, come avvenuto durante l’occupazione americana pur con una graduale diminuzione nel corso degli anni. Prima della riconquista del Paese da parte dei Talebani la previsione era già di un calo del sostegno economico di circa il 20% rispetto al precedente periodo d’impegno (15,2 miliardi di dollari nel periodo 2016-2020). Ma alla conferenza dei donatori a Ginevra di novembre scorso venne chiarito che gli impegni erano legati al rispetto di alcune condizioni, come la lotta alla corruzione e soprattutto lo sviluppo di rapporti di pace e sicurezza nel Paese.
Il terzo articolo pubblicato su Pandora intitolato La missione fallita cerca di comprendere le ragioni della sconfitta degli USA e dei loro alleati nel conflitto contro i Talebani, basandosi su un omonimo libro di Gastone Breccia.
Breccia riporta questa conversazione avuta nel 2011 con un militare italiano attivo nella base avanzata di Bala Boluk, nell’Est del Paese: «Non possiamo nemmeno difendere chi sta dalla nostra parte: con le forze che abbiamo e il territorio che ci è stato assegnato possiamo visitare ogni villaggio solo un paio di volte al mese. E sempre nelle ore di luce». Questo avrebbe potuto vanificare ogni sforzo: in un contesto di guerra civile in cui gran parte della popolazione è incerta se sostenere il governo di Kabul o gli insurgent locali, chi tra i locali collaborava con le forze Nato lo faceva mettendo a rischio la propria vita. Per le forze Nato, non essere presenti sul territorio per 28 giorni su 30 significa abbandonare queste persone – e chi potrebbe schierarsi con loro – in balia delle minacce e delle ritorsioni. Continuava il militare: «Quando costruiamo un pozzo, il capo villaggio che ce lo ha chiesto rischia la vita. Se distribuiamo dei medicinali, il giorno dopo vengono requisiti dagli insorti».
L’asse atlantico esce dall’Afghanistan sconfitto ma soprattutto inviso. Altri attori – Cina e Russia, ma soprattutto Pakistan, Iran e India – avanzano le loro manovre politiche su quello che rimane dell’Afghanistan.
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