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Breve storia dell’attacco di panico

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Ci sono voluti secoli perché al panico venisse data dignità clinica. Ora la sfida è riconoscere che il problema non ha a che fare solo con l’individuo ma con la collettività.

Su “Il Tascabile” Grazia Battiato, autrice free lance, partendo da un’esperienza personale, fa un breve excursus  storico e sociale dei disturbi d’ansia e dell’attuale situazione che vede un aumento generalizzato di questi disturbi nelle nostre società “ad alto reddito”. L’ articolo  pone anche questo tema in prospettiva.

L’autrice apre con il racconto del suo primo attacco, un’esperienza destabilizzante che inizialmente scambia per un problema fisico. Solo grazie alla psicoterapia riesce a dare un nome a ciò che le accade, trovando nella diagnosi un sollievo, ma anche un senso di vergogna, alimentato dallo stigma che ancora circonda la salute mentale.

Il panico, ci spiega, non è solo un problema individuale. È anche un fenomeno culturale e sociale. Spesso viene vissuto in silenzio, soprattutto da uomini e persone anziane, per via di modelli di mascolinità che non lasciano spazio alla vulnerabilità. Serie come BoJack Horseman e I Soprano mostrano bene questa tensione tra il bisogno di aiuto e la paura di apparire deboli.

Dal punto di vista clinico, il disturbo di panico è stato riconosciuto ufficialmente solo nel 1980, grazie al lavoro dello psichiatra Donald F. Klein. Prima di allora, sintomi simili venivano confusi con l’ansia generalizzata o la depressione. Ma le radici del panico sono molto più antiche: già Ippocrate e, secoli dopo, Robert Burton descrivevano episodi di paura improvvisa, anche se li inserivano nel quadro della “melanconia”.

Nel Settecento si comincia a distinguere tra ansia persistente e paura acuta, e nel Novecento nascono le prime teorie cognitive. David M. Clark, ad esempio, sostiene che il panico nasce da interpretazioni catastrofiche di segnali corporei innocui: un battito accelerato può essere scambiato per un infarto, innescando un circolo vizioso di paura e ipervigilanza.

Ma non è solo questione di cervello. L’articolo sottolinea come anche il contesto sociale giochi un ruolo fondamentale. Viviamo in un’epoca segnata da precarietà, stress ambientale, crisi climatica e isolamento. Tutti fattori che contribuiscono all’aumento dei disturbi d’ansia.

In conclusione, l’autrice ci invita a cambiare prospettiva: il panico non va visto solo come un problema da risolvere individualmente, ma come un sintomo di un sistema che non funziona. Serve più attenzione pubblica, politiche di prevenzione e una cultura della cura che metta al centro la salute mentale.

“perché si assiste a un miglioramento della salute fisica e a un peggioramento di quella mentale tra i più giovani?” La risposta, secondo ricercatori, clinici e attivisti, è sistemica e richiede un cambiamento prospettico: non considerare più i giovani come soggetti fragili, ma come i sensori più recettivi di un sistema in difficoltà. Da qui l’invito ad agire, attraverso il potenziamento della prevenzione, la rimozione delle barriere all’accesso, gli investimenti in politiche pubbliche che riducano l’impatto degli stress ambientali, economici, culturali.


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