Wilson, il podcast di Francesco Costa, dedica una puntata a uno dei tanti suicidi in carcere – quello di Said, un ventidueenne marocchino, morto a San Vittore (Milano) a fine giugno.
La storia di Said è emblematica di un problema più ampio: fra i detenuti, il tasso di suicidi è 20 volte più alto che all’esterno. Said era un irregolare senza documenti, arrestato per rapina. Essendo dipendente da vari tipi di sostanze (cannabis e alcool, ma anche farmaci ansiolitici e antiepiletteci), e con alle spalle un tentato suicidio, all’inizio viene mandato nelle CAR (celle ad alto rischio): degli spazi sorvegliati 24 ore su 24, ma senza servizi attrezzati, e le cui condizioni sono paragonabili a quelle dei manicomi prima della Legge Basaglia. Dopo un colloquio Said viene poi inviato alle celle ordinarie. In quel periodo non riesce a contattare nessuno: un detenuto, per poter essere autorizzato a telefonare fuori, deve infatti fornire prima vari attestati, come un documento d’identità della persona che vuole chiamare e un documento che ne attesti la relazione personale con il detenuto (come uno stato di famiglia). A tutto questo si aggiungono problemi di comunicazione (in tutta San Vittore c’è un unico mediatore culturale fisso). Il risultato è che suo padre, in Marocco, verrà raggiunto solo dopo la sua morte.
Nel frattempo Said non riesce ad accedere al SERT: ufficialmente, finché non gli fanno il test del capello, non può nemmeno essere diagnosticato come tossicodipendente. Arriva varie volte in infermeria, ma per atti di autolesionismo: si tratta di una pratica comune, dato che nelle carceri italiane si contano 10.000 azioni del genere ogni anno. San Vittore inoltre, come tutto il sistema carcerario italiano, è molto sovraffollato: benché abbia una capienza teorica compresa fra 500 e 700 detenuti, al momento ne occupa più di 1100, che sono chiusi per 22 ore al giorno in cella. Tre mesi dopo il suo arrivo in carcere, Said si uccide.


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