Il BoLive pubblica un articolo a cura di Federica D’Auria che descrive le conoscenze e le ipotesi che sono seguite alla scoperta, nel 1974 in Etiopia, di uno dei più importanti fossili nella storia della paleoantropologia: lo scheletro straordinariamente conservato di un ominide di sesso femminile vissuto ben 3,2 milioni di anni fa.
Nel 1974 venne scoperto in Etiopia uno dei più importanti fossili nella storia della paleoantropologia. Si trattava dello scheletro straordinariamente preservato di un ominide di sesso femminile vissuto ben 3,2 milioni di anni fa, che venne ben presto soprannominato Lucy. Questo celebre ritrovamento diede inizio a una nuova stagione di dibattiti sull’evoluzione umana; fornì nuove risposte e sollevò altre domande rispetto allo sviluppo di tratti che fino ad allora si credeva fossero prerogativa del genere Homo (in primis, il bipedismo), e mise in discussione le teorie dell’epoca sulla filogenetica umana.
Il BoLive ripercorre alcuni di questi dibattiti con Andra Meneganzin:
… ricercatrice post-doc in filosofia della biologia e filosofia della paleoantropologia – con un particolare focus sull’evoluzione umana – all’università cattolica di Leuven, in Belgio. Meneganzin è inoltre di ritorno da un simposio organizzato dall’Institute of Human Origins in occasione dei cinquant’anni dalla scoperta di Lucy.
Lucy fu attribuita alla specie Australopithecus afarensis, vissuta tra i 3,8 e i 2,9 milioni di anni fa. Tuttavia, la collocazione esatta di questa specie nell’albero evolutivo umano è ancora oggetto di dibattito.
La moderna ricerca considera infatti oggi l’evoluzione come un cespuglio:
Oggi, dopo cinquant’anni di ricerca paleontologica, non si pensa più all’evoluzione come un “albero” dotato di un tronco principale dal quale si diramano diverse propaggini, quanto piuttosto come a un cespuglio in cui diverse linee evolutive si sviluppano in parallelo. È stata scoperta, infatti, l’esistenza di diverse specie che vivevano contemporaneamente durante il periodo compreso tra i 3 e i 4 milioni di anni fa, una finestra temporale che costituisce un crocevia importante nell’evoluzione umana. “Alcuni paleoantropologi considerano quindi Lucy una lontana “prozia”, piuttosto che un’antenata diretta”, spiega Meneganzin.
L’andatura eretta di Lucy viene confermata dalle caratteristiche di alcuni distretti anatomici:
Lo scheletro di Lucy conserva diversi distretti anatomici – come, ad esempio, la forma delle ossa del bacino, del femore e della curvatura delle vertebre – che sono indicativi di un’andatura eretta. Eppure, il suo volume endocranico era poco più grande di quello di uno scimpanzé. Lucy aveva un cervello delle dimensioni di un melograno, per intenderci”. La sorpresa, come racconta Meneganzin, fu scoprire che lo sviluppo del tratto del bipedismo fosse molto più antico rispetto al trend di encefalizzazione, ovvero il progressivo aumento della massa cerebrale, vantaggio evolutivo fondamentale per H. Sapiens. “Questo non stupisce i paleoantropologi di oggi”, continua la ricercatrice. “Oggi sappiamo che l’evoluzione colpisce tratti diversi con ritmi diversi. Per questo si parla di ‘evoluzione a mosaico’. Comunque, non dobbiamo immaginare che l’andatura di Lucy fosse davvero paragonabile alla nostra. Le proporzioni dei suoi arti inferiori e superiori fanno pensare ad un centro di gravità differente rispetto al nostro, che le permetteva di percorrere distanze diverse”.
La scoperta di Lucy è avvenuta il 24 novembre 1974. L’australopiteco fu ritrovato nei pressi del fiume Hadar, in Etiopia, dal paleoantropologo Donald Johanson e dal suo studente Tom Gray. La scoperta avvenne quasi per caso, in un punto di scavo che era già stato analizzato più volte senza particolare successo. Johanson notò un lungo osso simile a quello di un braccio e iniziò a scavare con cura. Vicino a quel punto, la sua squadra trovò altri frammenti, sempre più numerosi. Alla fine, emerse lo scheletro più completo di un antenato umano antico di oltre 3 milioni di anni, comprendente ben 52 ossa, tra cui arti, mandibola, frammenti del cranio, costole, vertebre e soprattutto il bacino, che permise di identificarla come una femmina. Quella sera, riuniti intorno al fuoco, i paleoantropologi le diedero il nome di Lucy, ispirandosi alla canzone dei Beatles “Lucy in the Sky with Diamonds” che veniva spesso ascoltata nell’accampamento.
Kate Wong per le Le Scienze aveva intervistato nel 2014 Donald Johanson a quarant’anni dalla scoperta:
Sapevo fin dall’inizio che sarebbe stata una scoperta importante. Col senno di poi, posso dire che gli abbiamo anche dato un nomignolo azzeccato. Un membro della spedizione suggerì che, se fesse stata una femmina, come sospettavamo, avremmo potuto chiamarla Lucy, dalla canzone dei Beatles Lucy in the Sky with Diamonds” che sentivamo dal mio piccolo mangiacassette Sony la sera dopo la scoperta. Da una frase buttata lì, il nome Lucy divenne un tormentone fin dalla colazione del giorno dopo. “Perché stiamo tornando al sito di Lucy?”, “Quanto pensi che sia antica Lucy?”. In un attimo era diventata una persona. Penso che sia stato anche questo elemento a farla diventare un’icona: la gente ha iniziato ad affezionarsi al nome. Quando vedevano le fotografie non era solo un pezzo di mandibola o un cranio che li fissava con le orbite vuote: era il volto di un individuo. Questo elemento è stato particolarmente efficace nel coinvolgimento dei bambini, che mi scrivevano continuamente chiedendomi: “Abbiamo un progetto su Lucy: Pensi che fosse sposata? Che cosa mangiava?”
Donald Johanson raccontò l’avventura di questa scoperta nel libro Lucy, le origini dell’umanità.
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