Attraverso qualche esempio, Giorgio Fontana su Doppiozero tenta un’analisi del linguaggio nella scrittura e di come questo sia cambiato negli ultimi decenni. Una lingua, quella letteraria, che, secondo l’autore, ha smesso di essere “viva” e “felice”, per trasformarsi in qualcosa di più sciatto dove la ricerca stilistica sembra essere diventata elemento di secondo piano.
…uno dei problemi di molta narrativa dagli anni Ottanta in avanti sta nell’assenza della felicità di cui sopra: lo stile si abbassa, si fa più contratto e meno ricco; la ricerca dell’aggettivo e del sostantivo giusto sembra finire un po’ in secondo piano.
Fontana stesso riconosce la necessità di affrontare con cautela queste critiche che, generalizzando, rischiano di diventare facilmente esse stesse un comodo clichè.
Cautela, dicevo. In particolare il cliché sulla crisi della letteratura, il vago richiamo a un passato aureo e miseramente smarrito mi ha sempre trovato scettico, soprattutto perché poco argomentato e frutto, spesso, di pregiudizio o pigrizia. Non ci vuole molto a scrivere trenta righe di mesta lamentela sull’attualità, affermando che «non ci sono più i Calvino, gli Sciascia, eccetera». Più difficile, ma più utile, è interrogarsi sulle cause: o si suppone l’istupidimento repentino di intere generazioni, oppure si analizza concretamente il contesto sociale, culturale e politico che promosse e nutrì «i Calvino, gli Sciascia» — e il suo successivo mutamento.
L’autore cerca invece di concentrarsi sulle cause di questo fenomeno e individua nella massificazione linguistica della tv commerciale e nella progressiva frammentazione delle esperienze un paio delle ragioni dell’impoverimento della lingua letteraria. C’entrano anche i social media e il sistema editoriale naturalmente, ma è interessante vedere come Fontana attribuisca parte della colpa, tra l’altro, anche alla fine di un determinato paesaggio italiano.
Con il tempo la narrativa si è fatta inoltre meno provinciale e più cittadina, e sembra decadere di pari passo con la spoliazione del suolo. C’è più squallore, in un certo senso: ed è possibile che la lingua rifletta almeno in parte tale squallore. E forse abbiamo anche disimparato a guardare quanto rimane del paesaggio, violato o intatto che sia: da cui una contrazione dell’immaginario, un ripiegarsi su di sé e sul poco circostante, cui corrisponde una contrazione del vocabolario.
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