In un’intervista pubblicata su Il Tascabile, Fabio Pedone ed Enrico Terrinoni raccontano il loro lavoro di traduzione per la casa editrice Mondadori dei libri terzo e quarto del Finnegans Wake, l’ultimo romanzo di James Joyce.
James Joyce impiegò sedici anni per scrivere il Finnegans Wake. Dato alle stampe l’Ulisse nel 1922, si avventurò nella stesura di uno dei libri più complessi della storia della letteratura, pubblicato il 4 maggio 1939. Il Finnegans Wake è un flusso di coscienza portato all’estremo, dove le parole si ibridano e corrompono, si rinnovano in suoni e immagini che abbracciano più significati al tempo stesso e aspirano a raccontare la storia dell’umanità intera.
Scritto ricorrendo a più di quaranta lingue, il Finnegans Wake ha fama d’essere un libro intraducibile. “Essendo quest’opera quasi interamente scritta con parole inventate, di tre, quattro, cinque e persino sei sensi, la sua traduzione in una qualunque lingua è assolutamente impossibile” commentava Rodolfo Wilcock negli anni Sessanta, cimentandosi in una versione condensata dell’opera in italiano.
L’impresa della sua traduzione fa storia a sé. Iniziata negli anni Ottanta da Luigi Schenoni per gli Oscar Mondadori, la traduzione italiana è stata completata da Fabio Pedone e Enrico Terrinoni nel 2019, a ottant’anni dalla pubblicazione dell’originale. Così è stato dato un inizio all’incipit, al “fluidofiume” di Schenoni [“riverrun, past Eve and Adam’s…”], che è il completamento della frase che chiude l’ultimo capitolo del libro “L’a via l’una al fin amata a lungo ‘l” [“A way a lone a last a loved a long the”].
Che cosa significa tradurre un libro intraducibile? Confrontarsi con un’opera celebre per la sua oscurità?
Immagine da Wikimedia Commons
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