In uno suo articolo pubblicato per l’Huffington Post, il giornalista Riccardo Maggiolo parla delle possibili controindicazioni nell’introduzione generalizzata della cosiddetta settimana corta lavorativa, partendo dall’analisi del recente esperimento britannico in merito, che ha coinvolto una sessantina di aziende.
Ci sono, insomma, certi tipi di settori che possono regolare con molta più facilità il loro processo produttivo, mentre molti altri non hanno tutta questa flessibilità. Questi ultimi, se venisse imposta una riduzione di orario, vedrebbero quindi i loro costi salire di molto, e dovrebbero compensare magari con processi interni ancora più stressanti e alienanti. La settimana corta rischia quindi di allargare una frattura che già esiste tra il terziario – e in particolare quello avanzato – e il settore industriale o quello agricolo, per non parlare di quello pubblico.
Pur non disdegnandola affatto, Maggiolo critica la visione assolutistica della riforma come panacea, se non di ogni, di molti mali del lavoro odierni, ritenendo che, più che diminuito, il lavoro vada ripensato.
Che il modello economico e sociale centrato sul perseguimento della massima produzione e della massima occupazione debba essere rivisto oramai è evidente ai più. Tuttavia, pensare di risolvere il problema utilizzando strumenti come il salario minimo, lo smart-working o la settimana corta – che pure, lo ripetiamo, possono avere un ruolo – è illusorio. Perché sono soluzioni calate dall’alto e che si concentrano sul come lavoriamo, rischiando di non farci affrontare il tema centrale, che ha a che fare col perché lavoriamo.
Commenta qui sotto e segui le linee guida del sito.