Alexandra Schwartz su The New Yorker parla del metodo Stanislavskij (€ — alt).
L’articolo parte da un aneddoto accaduto al regista Lee Strasberg, per arrivare al punto della recitazione:
Ben presto si trovò di fronte ad un dibattito che durava da secoli: un attore deve provare le emozioni di un personaggio per poterle rappresentare o le emozioni devono essere rappresentate senza essere provate? Entrambi gli schieramenti avevano i loro punti di forza. Shakespeare era a favore dell’esperienza; Amleto mette in guardia dagli attori che si limitano a «boccheggiare» le loro battute e si sente trasportato da un attore che recita «in un sogno di passione». A guidare l’opposizione era Diderot, il filosofo illuminista. Gli attori che «recitano con il cuore», scrisse Diderot, sono «alternativamente forti e deboli, ardenti e freddi, noiosi e sublimi», esattamente come aveva notato Strasberg. Per ottenere un risultato più coerente, Diderot credeva che gli attori dovessero perfezionare la loro tecnica esterna — la voce, il corpo — e lasciare fuori i propri sentimenti.
Sarà proprio attaverso Strasberg che le idee di Stanislavskij troveranno diffusione negli Stati Uniti.
Spesso, si rendeva conto Stanislavski, l’artificiosità dell’impresa teatrale era d’intralcio. Gli attori sanno perfettamente che non stanno bevendo veleno, che la pistola non esplode. Per questo motivo, Stanislavski elaborò un concetto che chiamò «magico se». «E se le condizioni sul palco fossero reali?», dovrebbe chiedersi l’attore, e poi procedere di conseguenza. È un’idea bellissima: per far sì che il pubblico sospenda la propria incredulità, gli attori devono sospendere la propria. Ma potrebbe funzionare così bene da far perdere di vista la realtà all’attore? Nemirovich-Danchenko, il primo di una lunga serie di scettici, chiamò il sistema stanislavshchiano «la malattia di Stanislavski».
Se i cinque sensi sono facili da ingannare (conosciamo la sensazione di bere un bicchiere di vino rosso, anche se in quel momento stiamo bevendo acqua), emozioni e ricordi sono più difficili da comandare a bacchetta.
Come nella tradizione omerica, il passaggio da Stanislavski ai suoi epigoni statunitensi creò confusione. Strasberg spingeva i suoi attori ad emozionarsi partendo dal proprio vissuto, arrivando a mimare un certo stato d’animo (distante o meno dal passato dell’attore poco importa, i ricordi dovevano essere solamente un interruttore per la rappresentazione).
Stanislavski in persona invece — come notarono alcuni studenti abbastanza fortunati da partecipare a sue lezioni a Parigi — consigliava di “ricostruire” l’emozione. Per far ciò all’attore era richiesta immaginazione, cioè l’abilità di scorrere nella propria mente tutto il passato del personaggio, e da qui attingere quanto necessario per riversarlo sul palco.
Schwartz continua elencando attori dal dopoguerra in poi nel loro utilizzare o meno il metodo per antonomasia (da De Niro a Marilyn Monroe passando per Marlon Brando) e il rapporto con il pubblico dei vari stili di recitazione.


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