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Il motore a gasogeno e il fallimento dell’autarchia fascista

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Stefano Dalla casa, in un articolo su Il Tascabile, parla del motore a gasogeno, pensato dal regime fascista come mezzo ideale per ottenere l’autosufficienza energetica anche in mancanza di fonti fossili.

Il gasogeno (o gassogeno) è un apparecchio che crea un gas a base di monossido di carbonio a partire dalla combustione di biomassa. Si brucia quindi della legna e si ottiene quello che è un gas “povero”, ma che può anche alimentare un motore a combustione interna

Questo tipo di tecnologia avrebbe potuto, secondo gli ideatori del periodo fascista, mettere insieme le due spinte principali del periodo: l’esaltazione della ruralità come custode dei valori fascisti e la spinta al progresso e alla modernizzazione del paese, anche in un’ottica di rafforzamento militare.

Durante il ventennio, la propaganda fascista sul gasogeno venne perfettamente integrata in una precisa narrazione imposta dal regime.

Gli esponenti del regime sognavano di utilizzare gli scarti dell’agricoltura e della silvicoltura per alimentare macchine a gasogeno, per addomesticare una Natura matrigna che privava l’Italia di risorse utili per il futuro di gloria prossimo venturo.

È una natura non da tutelare in quanto parte di relazioni socio-ecologiche, ma piuttosto da sottomettere e mettere a valore, da trasformare così in un’alleata. Questo è l’humus su cui nascono le bonifiche, i parchi nazionali, e le centrali idroelettriche.

Tuttavia in breve tempo vennero evidenziati i limiti di una tecnologia che aveva grossi problemi di efficienza e sicurezza, oltre che avere enormi difficoltà per il trasporto e lo stoccaggio della legna e del carbone necessari al funzionamento di questa tipologia di motore.

L’utilizzo del gasogeno non fu limitato alla sola Italia fascista: anche altri paesi europei, in previsione della guerra, avevano effettuato studi su questa tecnologia per poterla utilizzare in caso di necessità durante il conflitto, come fece la Svezia dopo il 1940.


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