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Il taglialegna di latta e le logiche perdute della sinistra

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In un articolo pubblicato su Doppiozero, Francesco Memo riflette sulla crisi della sinistra moderna.

A me sembra che siano tre le logiche, i meccanismi, che hanno sostenuto il cammino storico della sinistra e che sono entrate in crisi negli ultimi decenni. Le ho chiamate logica emancipatoria, logica rivendicativa, logica anti-sistema.

La prima è la logica più importante, perché costitutiva dell’idea stessa di sinistra. La sinistra nasce e si sviluppa storicamente declinando il concetto di emancipazione: emancipazione dei lavoratori sfruttati, emancipazione dei popoli colonizzati, emancipazione delle donne, emancipazione delle minoranze. La parola emancipazione deriva dal latino emancipatio, l’istituto attraverso il quale nel diritto romano il figlio otteneva l’estinzione della propria condizione di minorità: liberandosi dalla potestas del padre famiglia prendeva in mano la propria vita. Emanciparsi vuol dire uscire dalla subalternità, farsi soggetto, assumere una coscienza politica, imparare insieme ad altri a darsi un’educazione e una voce. Anche chi non appartiene al gruppo subalterno può far propria la logica emancipatoria, come ha insegnato il femminismo, a patto di accettare di mettere in discussione i cascami della propria appartenenza, perché l’emancipazione non è mai un percorso passivo.

Che ruolo occupa oggi la logica emancipatoria nel discorso della sinistra? Molto limitato, mi pare. Si confonde per lo più con la logica compassionevole, che è altra cosa. La compassione, verso il povero, l’immigrato, chi sta peggio di noi, è un sentimento nobile ma non può essere la leva di un progetto politico di sinistra. Perché, da una parte, presuppone che il noi che prova compassione si trovi in una condizione sufficientemente confortevole da potersi preoccupare verso “chi rimane indietro, chi non ce la fa”, per usare formule retoriche diffuse negli ultimi anni, diventando così appannaggio esclusivo di classi medio-alte.


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