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Le politiche sull’immigrazione negli Stati Uniti

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Il mensile The Atlantic pubblica (€ — alt) un articolo di David Leonhardt (storica firma del New York Times, premiato con il Pulitzer nel 2011) sulle conseguenze socioeconomiche delle politiche migratorie.

Il ragionamento di Leonhardt parte dall’approvazione dell’Immigration and Nationality Act nel 1965. La legge rimosse alcuni paletti che de facto rendevano più difficile a persone dell’europe meridionale, asiatiche e di altre etnie l’immigrare negli Stati Uniti, privilegiando sostanzialmente europei occidentali o del nord. Leonhardt riconosce la bontà del provvedimento nello scardinare una visione etnocentrica del fenomeno, ma afferma che non tutte le critiche di allora furono sbagliate.

I promotori della riforma parlarono all’epoca di una «modifica marginale», che avrebbe messo fine ad una situazione irragionevole (cioè valutare il singolo rispetto alla sua provenienza invece che dalle sue competenze e dai legami che aveva negli Stati Uniti), non modificando sostanzialmente il saldo migratorio e prevedento una «protezione completa» rispetto alla competizione salariale con gli autoctoni. Non fu così: i numeri si fecero presto importanti e anche sulle caratteristiche degli immigrati ci furono diverse sorprese, con il grosso degli ingressi concentrati sulla fascia salariale bassa.

Leonhardt prosegue con l’analisi dei redditi della metà più povera delle famiglie americane rispetto al numero di residenti nati all’estero, andamento che mostra una correlazione inversa. Leonhardt sottolinea che questo da solo non implica necessariamente causalità, elenca anche altre concause che hanno concorso a tenere bassi i redditi dei decili più poveri della popolazione, ma evidenzia che è innegabile che un effetto ci sia stato:

Le stesse prove suggeriscono che l’immigrazione ha giocato un ruolo […] nel tenere bassi i salari. […] Quando l’immigrazione aumenta, i datori di lavoro hanno spesso una posizione migliore. Quando l’immigrazione è bassa […] i datori di lavoro sono costretti “ad adattare i posti di lavoro agli uomini piuttosto che gli uomini ai posti di lavoro”.

Questa competizione salariale non interessa le classi più agiate, che hanno la possibilità di mettere delle barriere — legislative ma non solo — all’ingresso rispetto alle proprie professioni.

Una terza questione viene affrontata dal punto di vista politico più che economico, cioè del come mai l’immigrazione sia un tema allo stesso tempo estremamnte dibattuto sui giornali e “sentito” da più parti dell’elettorato, ma non vi siano stati che pannicelli caldi da un punto di vista normativo. Per spiegare questa incongruenza Leonhardt ricorda il tentativo (fallito) di una riforma complessiva in tema di immigrazione nel 1995, affidata dal presidente Bill Clinton a Barbara Jordan. Secondo Leonhardt gli interessi dei datori di lavoro e della destra repubblicana ad avere salari più bassi si sposò con un rinnovato universalismo del Partito democratico, rendendo difficile qualsiasi riforma allora come oggi. Questo è parte di una frizione ancora non risolta:

Se si pensa all’immigrazione come a una questione sociale – una questione di diritti umani – si potrebbe dire che i Democratici si sono spostati a sinistra favorendo una maggiore immigrazione. Se si pensa all’immigrazione come a una questione economica interna, che influisce sulla dinamica del potere tra datori di lavoro e lavoratori americani, si potrebbe invece dire che una politica di maggiore immigrazione è una posizione di destra. Dopo tutto, anche il gigante intellettuale conservatore Milton Friedman era a favore di alti livelli di immigrazione. In ogni caso, la svolta del Partito Democratico sulla politica dell’immigrazione è coerente con il “braminismo” (ndr espressione coniata da Piketty per indicare la sinistra delle professioni intellettuali), in cui il partito è diventato più progressista sulle questioni sociali che su quelle economiche.

La nascita di una “nuova” destra fonde in maniera spericolata (e ambigua) un retroterra razzista o xenofobo queste considerazioni economiche, rosicchiando voti da blocchi di elettorato che per generazioni avevano votato dall’altra parte. A sinistra ci si avvia a dover rispondere ad una domanda politicamente non semplice: chi crede in una società multiculturale vede come fumo negli occhi delle restrizioni al diritto di muoversi.

“Per coloro che credono in un’America multiculturale, la questione può essere scomoda da affrontare, perché qualsiasi sistema che non sia quello delle frontiere aperte richiede invariabilmente di tracciare distinzioni che dichiarino alcune persone degne di entrare e altre non degne”, ha scritto la giornalista Jia Lynn Yang nella sua storia della legge sull’immigrazione. A causa di questo disagio, il moderno Partito Democratico ha faticato ad articolare una politica sull’immigrazione che andasse al di là di ciò che si potrebbe riassumere come: più è meglio, meno è razzista. Il partito ha messo da parte l’eredità di Jordan e di altri progressisti che facevano distinzioni più sottili.

È su questa compensazione che secondo Leonhardt si giocherà la partita politica del futuro. Riprendendo proprio le parole di Jordan:

Il punto più importante dell’immigrazione è che comporta dei compromessi. Per secoli, gli oppositori dell’immigrazione l’hanno dipinta come intrinsecamente negativa, e le loro affermazioni sono state smentite più volte. Più di recente, gli universalisti hanno dipinto l’immigrazione come inevitabilmente positiva, un’argomentazione che dipende in parte da un’illusione. L’immigrazione può essere meravigliosa, ma le cose buone raramente sono gratuite, come diceva Jordan.


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