Su suggerimento e a cura di @Ander Elessedil.
Una recente campagna di scavo in Iran, durante la quale sono stati scoperti un deposito di tavolette di argilla e centinaia di corpi, prova di un antico massacro, è lo spunto per la rivista Archaeology per ripresentare un articolo del 2011.
Il titolo non è semplicemente un riferimento a Tolkien. Non solo il territorio descritto nell’articolo è così lontano nel tempo e nello spazio, con così poche informazioni al riguardo, da essere quasi fantastico come la creazione dell’autore britannico. Esso fu proprio un ponte fra le nascenti civiltà mesopotamiche a Ovest e quelle dell’Indo a Est. Una “Terra di Mezzo” per definizione.
In quello che è oggi l’Iran dell’Est vi è il deserto del Dasht-e-Lut e i territori circostanti, con uno dei climi più inospitali della terra. Anche oggi la popolazione è scarsa, e la vicinanza ai turbolenti confini afghano e pakistano è fonte di problemi.
Ma il Dasht-e-Lut non è sempre stato uno scatolone di sabbia.
5000 anni fa, quando anche le prime città mesopotamiche erano nella loro fanciullezza, sorse un’importante civiltà dedita alla lavorazione di stagno, rame, piombo, turchesi, lapislazzuli, ceramiche, tessuti e tutto il resto dei prodotti dell’età del Bronzo. Non solo città, come Shahr-i-Sokhta e Shahdad, ma anche moltissimi piccoli insediamenti distribuiti per centinaia di km dalle coste del golfo Persico alle steppe e ora abbandonati.
Non erano una semplice “colonia” delle più famose civiltà loro vicine ma un ponte fra quelle culture, soprattutto commerciale. Avevano palazzi e una propria scrittura. Nel 2000 a.C. erano già state tutte abbandonate e il Dasht-e-Lust tornava a essere un luogo vuoto e selvaggio. Per 1500 anni, fino all’impero persiano, non furono creati nuovi insediamenti nell’area. Un tempo sufficiente per cancellare qualsiasi memoria.
Uno dei primissimi a scoprire l’antica civiltà fu il leggendario esploratore inglese Sir Aurel Stein, nel 1915, protagonista anche nel Turkestan cinese di famose spedizioni archeologiche. Egli scoprì (o ri-scoprì) le rovine della città definita dalle tribù locali come Shahr-i-Sokhta, la Città Bruciata.
Fu però solo decenni dopo, a opera di archeologi italiani come Maurizio Tosi, che il sito venne scavato. Si provò che la città fiorì da circa il 3200 a.C. per i seguenti mille anni, e che poteva contenere, al massimo del suo splendore, fino a 20.000 abitanti, un numero importante per l’epoca.
Costruita con mattoni di argilla, essa possedeva un palazzo, quartieri residenziali e quartieri produttivi dove si lavoravano metalli, tessuti e pietre preziose. Fu forse proprio il commercio di lapislazzuli fra l’Afghanistan, dove venivano estratti, e la Mesopotamia, a garantire la prosperità dei suoi abitanti, oltre alle locali miniere di stagno, rame e turchese.
Mentre Tosi scavava Shahr-i-Sokhta, un team iraniano portava avanti le ricerche più a ovest, dove nell’antico delta ormai prosciugato di un fiume che si perdeva nella piana che oggi è il Dasht-e-Lut sorgeva Shahdad, fondata quasi 7000 anni fa. In essa sono state scavate ricche tombe, con statue di proporzioni umane sepolte con i defunti e altri spettacolari artefatti. Shahdad era un importante centro metallurgico e uno snodo commerciale fra località situate in tutti i punti cardinali, dato che lavorava sia le pietre afghane che le conchiglie del Golfo Persico che beni mesopotamici o delle steppe turkmene.
Questa grande messe di dati e di scoperte fa sorgere alcune importanti domande.
Come hanno potuto città così grandi nascere e espandersi in un clima così sfavorevole? Cosa ingegnarono gli abitanti per raccogliere e distribuire l’acqua, la risorsa più preziosa del tempo? Ancora oggi i contadini locali dipendono da canali sotterranei, detti qanat, per sopravvivere alle prolungate siccità. Gli abitanti di quelle antiche città avevano un sofisticato sistema di questo tipo? Alcune tracce archeologiche puntano in quella direzione. Oppure vi fu un cambiamento climatico che portò prolungate siccità e un inaridimento generale del clima?
E ancora, poiché tutti questi luoghi furono abbandonati intorno all’anno 2000 a.C. quando anche grandi centri mesopotamici e Mohenjo-Daro, nella valle dell’Indo, collassarono, l’abbandono fu conseguenza di quel declino? Essendo Shahr-i-Sokhta e Shahdad centri di una rete commerciale furono travolti dalla sparizione di mercati di sbocco per i loro prodotti. O magari furono soppiantati da altri percorsi, per esempio per i mercanti della valle dell’Indo conveniva attraversare il mare fino in Arabia per scambiare prodotti?
Molte campagne di scavo saranno ancora necessarie per rispondere a questi quesiti.
E forse a altri che sorgeranno.
Immagine by Rasool abbasi17 CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons
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