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L’importanza dell’alfabetizzazione digitale sin dall’infanzia e il ruolo dei genitori

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Tiziana Metitieri, neuropsicologa dell’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze, riflette su ValigiaBlu sull’alfabetizzazione digitale dei bambini, come avviene, in che contesto e tra quali difficoltà — volontariamente o involontariamente anche create dagli adulti e dai loro pregiudizi e paure — che l’autrice sottointende siano spesso infondate o derivanti, soprattutto, da una scarsa comprensione dei “dispositivi digitali”.

Una fonte privilegiata da cui l’autrice attinge è uno studio (parte della serie di libri International Perspectives on Early Childhood Education and Development) su settanta famiglie di sette paesi (Italia inclusa), condotto da Stephane Chaudron e collaboratori, per il quale genitori e figli sono stati intervistati al fine di ottenere un’idea delle “pratiche digitali” in uso. Questo studio è affiancato però da altri articoli e studi che sono stati citati come fonti per fondare le considerazioni espresse.

  • Famiglia, modelli di comportamento, comunità

Ormai, l’introduzione ai “dispositivi digitali” avviene in famiglia, grazie all’ubiquità degli stessi — siano essi rappresentati da una lampadina smart, o un tablet o addirittura un computer desktop. L’autrice sostiene che l’apporccio più spesso seguito è quello della famigerata dicotomia bastone-carota:

In generale, all’interno di una famiglia, i dispositivi digitali sono utilizzati per ridurre lo stress genitoriale, per ridurre i conflitti tra fratelli e sorelle e per tenere occupati i propri figli e figlie. La tendenza è prevalentemente quella di restringerne l’uso o di sfruttare i dispositivi come ricompensa e punizione, piuttosto che incoraggiare l’integrazione tra attività digitali e non digitali.

Tra un premio e l’altro, una punizione e l’altra ed una zuffa tra fratelli e l’altra, i “dispositivi digitali” non stanno a prendere polvere, ma vengono utilizzati dagli adulti. Questo, sostiene Metitieri, investe i genitori del ruolo di modelli ed esempi di come questi oggetti debbano venir utilizzati, non inteso nel mero senso pratico ma per quali scopi. Purtroppo:

La minore consapevolezza di questo ruolo [essere dei modelli di comportamento, Nota della Marmotta], assieme alle insufficienti competenze digitali, restringe lo spazio di una mediazione da parte dei genitori che tenda in modo virtuoso e critico a integrare strumenti ed esperienze nella vita quotidiana piuttosto che a impedirne l’uso. Quest’ultima strategia, che tiene i dispositivi fuori portata, è finalizzata a ridurre l’ansia genitoriale evitando o rinviando ogni decisione.

Questo temporeggiare spaventato ha, naturalmente, delle conseguenze; per prima quella di offrire ai bambini dei punti di partenza molto diversi e, quando questi sono conseguenza di un approccio restrittivo invece che di uno volto ad integrare l’esperienza “digitale” a quella analogica, costituisce secondo la neuropsicologa un netto svantaggio.

  • Tempo di esposizione contro esperienza

Una metrica molto in voga al di là dell’Atlantico, o che almeno lo è stata, è il tempo di esposizione — non a sorgenti radioattive, ma “agli schermi” o, per meglio dire, ai videogiochi. L’autrice cita il lavoro della ricercatrice statunitense Laura Teichert, che sostiene che i bambini ripropongano i codici espressivi delle loro comunità [digitali] e continuino ad espandere le esperienze e le conoscenze acquisite nel mondo del gioco digitale anche dopo che questo è finito ed il dispositivo non più in utilizzo.

In effetti, nell’ampia letteratura sul gioco digitale dominata dalle conseguenze negative del tempo di esposizione, quella che manca è una prospettiva centrata sui bambini ossia su come si strutturano le esperienze di gioco, su come i bambini iniziano, organizzano e regolano il gioco nello spazio digitale e come lo esportano e continuano nello spazio non digitale estendendolo ad attività non esclusivamente correlate al gioco, come il disegno, l’immaginazione e il ragionamento logico.

Per via di questa continuità, sostiene la ricercatrice, il tempo di esposizione è una metrica inadatta a catturare la complessità del fenomeno:

Difatti, il tempo di esposizione rappresenta ormai un concetto vuoto, insufficiente per esplorare le esperienze con i dispositivi digitali che si differenziano in base al tipo di fruizione […], al dispositivo […], al contenuto […], al contesto […], al luogo […].

  • Sviluppo e (mancato) sviluppo cognitivo

Una domanda che inevitabilmente da genitori ci si pone è, per i “dispositivi digitali” come per ogni cosa, se fanno bene o male — in particolare, se lo sviluppo cognitivo della progenie possa trarre vantaggio dall’interazione con un ammenicolo oppure no. Metitieri cita il lavoro di un terzo gruppo di ricerca in proposito.

Miller e collaboratori hanno recentemente pubblicato uno studio in cui hanno esaminato i dati di oltre 10.000 pre-adolescenti di 9-12 anni nell’ambito di un’ampia ricerca statunitense (Adolescent Brain Cognitive Development), e non hanno trovato alcuna relazione significativa tra l’uso degli schermi e le misure cognitive e di salute mentale.

L’autrice ovviamente esplicita che gli effetti negativi non sono esclusi a priori, ma non se ne è trovata traccia. L’articolo si conclude con un appello a mantenere una mente ed un approccio aperto, senza farsi prendere dalla paura del nuovo:

La resistenza culturale a valorizzare l’alfabetizzazione e le pratiche digitali emergenti fin dai primi anni di vita consegue a una serie di barriere derivanti dalle credenze e dagli atteggiamenti individuali e anche da limiti nell’accessibilità e nella formazione (di genitori e di insegnanti) oltre che dalla carenza di infrastrutture.


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