Il BoLive, sito divulgativo dell’Università di Padova, racconta in un articolo dal titolo La lunga tradizione degli autoesperimenti in medicina, a firma di Sara Urbani, quanto lo sperimentare su se stessi sia stata per lungo tempo una pratica diffusa fra gli scienziati, medici e biologi in particolare.
Si sta calmando solo adesso il grande clamore suscitato dall’esperimento che la biologa molecolare Beata Halassy ha effettuato su se stessa per provare a bloccare la nuova recidiva del tumore al seno che l’aveva colpita anni prima (ne abbiamo parlato qui e qui).
Ma quanto fatto da Halassy non è una novità. Per molto tempo medici e biologi hanno usato se stessi, e a volte i propri parenti stretti, per testare l’efficacia di terapie o farmaci che stavano studiando.
Nell’articolo, in particolare, si parla del libro di Silvia Bencivelli Eroica, folle e visionaria – Storie di medicina spericolata, edito da Bollati Boringhieri e finalista al Premio Galileo 2024.
Nel laboratorio non c’è più nessuno, sembra proprio il momento giusto per fare un ultimo test su quella coltura batterica a cui stai lavorando da tempo… come? Assaggiandola, naturalmente.
Nel libro Bencivelli racconta le storie di ricercatori (molti) e ricercatrici (poche) che negli anni d’oro della medicina hanno effettuato esperimenti su loro stessi per poter trovare le risposte alle proprie domande.
Le motivazioni per questi esperimenti sono molte: dalla sfrenata curiosità, alla volontà di arrivare prima dei rivali, dall’ambizione alla mancanza di alternative, per risparmiare o per divertirsi. A volte questi esperimenti hanno portato a dei premi Nobel, altre volte hanno avuto esito fatale, altre volte ancora non hanno portato a nulla. E qualche volta sono state delle vere frodi.
sono almeno sette i premi Nobel ottenuti da chi ha compiuto autoesperimenti. Per esempio, il medico tedesco Werner Forssmann che lo vinse nel 1956, dopo aver praticato il primo cateterismo cardiaco su di sé e averlo immortalato in un radiografia. Oppure il microbiologo australiano Barry Marshall, premiato nel 2005, che aveva bevuto una coltura di Helicobacter pylori per dimostrare che causava l’ulcera gastrica. O ancora il sudafricano Max Theiler, vincitore del Nobel nel 1951, che ha sviluppato il primo vaccino efficace e sicuro contro la febbre gialla, testandolo ovviamente su di sé.
Nel libro Bencivelli parla anche degli esperimenti che non sono andati a buon fine, sottolineando come la pratica sia sempre rischiosa, anche se non del tutto un retaggio degli albori della medicina: basti pensare ai test che gli astronauti e astronaute della ISS compiono quando sono in missione in orbita. Il suggerimento dell’autrice è quello di considerare i passi avanti fatti dalla scienza medica, che dai primi (eroici?) sperimentatori solitari, è passata a mettere a punto gli ampi studi clinici moderni.
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