“La letteratura occidentale inizia con l’Odissea, perché è con l’Odissea che abbiamo la persona al centro della narrazione”; o, almeno, così sosteneva il mio prof. di greco, che era un grande, e chi sono io per contraddirlo? Ma la vicenda di Ulisse è inscindibilmente legata con una spazio che è geografico e culturale insieme: il Mediterraneo.
Quando Braudel ha pubblicato per la prima volta il suo “Mediterraneo” nel 1949, esso ha rappresentato un vero e proprio momento di rottura nella storiografia contemporanea, emblema della nuova storiografia degli Annales.
L’opera di Braudel dedicata al Mediterraneo costituisce un’eccezionale sintesi di questo nuovo approccio storiografico.
Se l’approccio storiografico allora dominante, rappresentato dal paradigma della storia-politica, costruiva le proprie ricerche attorno ai due cardini: dell’epoca (piano temporale) e della società nazionale (piano spaziale), Braudel rifiuta la scelta di un soggetto storico, mettendo in primo piano un soggetto geografico, il Mediterraneo appunto, con le sue molteplicità culturali, temporali e sociali.
Si insiste poi molto sugli elementi naturali, pensati quali fattori che influenzano in maniera decisiva la vita umana, il che permette alla natura e all’ambiente di entrare nella storia ottenendo per la priva volta un forte riconoscimento in quanto aspetti inalienabili dalla narrazione storiografica.
Prende così avvio lo studio della storia del «mondo-Mediterraneo», dove con mondo si intende precisamente una realtà non omogenea, plurale, nella quale ci sono popoli e stati differenti, che interagiscono e si trasformano in continuazione.È in quest’opera infatti che emerge la categoria di longue durée (lunga durata), con la quale si afferma l’idea che i processi storici e le strutture sociali vadano studiati considerando la lunga durata dai vari eventi che li hanno portati a manifestarsi o istituirsi,
Successivamente andrà poi ad approfondire ulteriormente questa intuizione istituendo una tripartizione nella temporalità storica composta da:
il «tempo geografico» (le temps géographique) che rappresenta il livello più profondo, dove la storia sembra quasi immobile e dove le trasformazioni si osservano nell’arco dei decenni o dei secoli.
il «tempo sociale» (le temps social) proprio di quella storia che appartiene ai gruppi sociali nei quali i cambiamenti sono costanti ma comunque lenti.
il «tempo individuale» (le temps individuel) appartenente alla storia degli eventi, ovvero di ciò che appare nell’immediato, è la superficie della storia stessa.
A questa differenziazione della temporalità si aggiunge poi il concetto di reciprocità (réciproquement), già centrale in Bloch e indicante un’immagine di storia-totale dove in quel mondo oggetto di studio «tutto influisce su tutto in modo reciproco: l’economia è anche politica, cultura e società».Per Braudel il mondo è stato e sarà sempre attraversato da una molteplicità di storie, perché la storia è sempre molteplice, non si declina mai al singolare, ma si pluralizza incessantemente ramificandosi, dileguandosi e inventandosi. La storia va infatti pensata come un tempo e un luogo creativo e aperto: la lunga durata e la reciprocità testimoniano dunque la nascita di una nuova coscienza del proprio tempo di vita, passato, presente e futuro.
A fare da controcanto all’opera di Braudel è Abulafia con il suo “Il Grande mare” (“Baruch Atah Adonai, Eloheinu Melech Haolam, she’asah et hayam hagadol”)
Abulafia si rifà agli scritti di Braudel, e non potrebbe essere altrimenti, ma non accoglie in toto la teoria dallo storico francese, che con il termine “Mediterraneo” intendeva non solo lo specchio d’acqua e la fascia costiera ma anche i territori situati all’interno, abitati da popolazioni prive di tradizioni marittime, che però contribuivano alla grande rete economica transmediterranea fornendo derrate alimentari e materie prime. Anche se l’autore non ignora certo l’entroterra, lo scopo dichiarato del libro è quello di concentrarsi sullo sviluppo delle città portuali e soprattutto sugli uomini che hanno solcato, per i più disparati motivi, le onde del Grande Mare, adottando quindi una visione generale più ristretta rispetto a quella di Braudel (pp. 3-4).
Nonostante l’opera non si discosti dalla generale narrazione che vede il Mediterraneo perdere progressivamente di importanza a partire dal XV secolo, Abulafia ci mostra come anche in periodi di “crisi”, a partire dalla metà del XVII secolo, quando i traffici oceanici iniziano ad assumere dimensioni ragguardevoli, esso sia stato fondamentale per la storia umana ed europea, basti pensare alla conquista della rocca di Gibilterra e delle isole maltesi da parte dei britannici, l’apertura del canale di Suez o la creazione dello stato di Israele nel 1948.
Personalmente, poi, non si può prescindere da “Breviario Mediterraneo” di Matvejevic
Breviario Mediterraneo ricostruisce la storia culturale, religiosa e profondamente umana di un mare che è da sempre culla di civiltà. L’autore naviga le acque di un Mediterraneo che non è soltanto geografico, ma anche profondamente concettuale, poliedrico, e proprio per questo conflittuale, allora come adesso; la rappresentazione era tanto vera nel 1987, quando il libro fu pubblicato, quanto lo è oggi, rimasto vivo e attuale nella sua problematicità. Si legge nelle prime pagine:
“Il mediterraneo non è solo geografia. I suo confini non sono definiti né nello spazio né nel tempo. Non sappiamo come fare a determinarli e in che modo: sono irriducibili alla sovranità o alla storia, non sono né statali né nazionali. […] Sul Mediterraneo è stata concepita l’Europa.”
In effetti, a parte pensare tutti i giorni all’impero romano, un’Europa senza Mediterraneo sarebbe monca, e senza nome.
Ovviamente ci sono molti altri libri sul Mediterraneo, ma io questi ho letto: chi vuole aggiunga gli altri. Però – si mihi licet parva componere magnis – segnalo questo, che non ho ancora letto: “L’isola” di Senko Karuza,
Mi piace dire a quelli della terraferma che hanno tutto quello che mi manca, e a me stesso che ho tutto quello che manca a loro». Senko Karuza, poeta, filosofo e scrittore croato, ha chiuso con la vita di città ma non ha cercato solo un buen retiro lontano da Zagabria: voleva una nuova vita dentro se stesso. Da qualche anno vive sull’isola di Lissa (Vis) e la capitale è diventata un lontano ricordo. «I miei amici scrittori [ci dice in questa che è la sua prima intervista italiana, nda] che vivono in città soffrono il mio stesso tormento nel trovare il tempo libero necessario per scrivere: mentre io sto nella mia vigna che mi prende tutto, loro sono negli uffici, nelle scuole o nelle redazioni. E ci invidiamo a vicenda e questo sarà sempre così».La vita dell’isola scorre lenta, tra affollamenti estivi in cui conosciamo quanto «la trama sottile dell’ospitalità» dei proprietari delle case affittate ai turisti rimanga «impenetrabile», e località semideserte nelle altre stagioni dell’anno dove chi rimane coltiva la terra, cura gli gli ulivi e le vigne. Gli isolani allora vanno al porto a vedere chi arriva e poi ritornano indietro infilando i vicoli e alzando i baveri delle giacche per proteggersi dal vento. Dopodiché al bar: «Tutti sono benvenuti al caffè del mattino in piazza, se fanno parte della ristretta cerchia di amici della piccola comunità. Ma bisogna assolutamente voltare le spalle al muro, guardare il mare, avere il pieno controllo sulla piazza». Forse è una vita simile a quella di chi non è isolano «ma le differenze tra la vita sull’isola e quella sulla terraferma – ci spiega lo scrittore – sono enormi». La sensazione di isolamento e di distanza, l’impossibilità di muoversi a piacimento, un territorio molto piccolo che è impossibile espandere, la sensazione di abbandono e di solitudine, sono tutti elementi che possono avere effetti molto gravi sulla salute mentale ed è certo che non tutti riescono ad affrontarli, soprattutto chi qui non è nato e non ci ha trascorso l’infanzia e gli anni formativi.
Ecco, secondo me chi vive sul Mediterraneo è allo stesso tempo uomo di terraferma e di isola.
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