In un lungo articolo pubblicato su American Affairs, Philip Mirowski traccia un quadro dello sfuggente neoliberismo mettendolo a confronto con l’economia neoclassica e discutendo le trasformazioni che il suo sistema di idee, attraverso l’attivismo dei suoi sostenitori, ha prodotto nell’individuo e nella società tutta, giungendo finanche a contaminare, secondo l’autore, il campo della ricerca scientifica.
L’elusività del neoliberismo, tuttavia, deriva in ultima analisi dalle negazioni che gli stessi neoliberisti hanno fatto dei loro sforzi. Se da un lato possiamo identificare abbastanza bene la rosa di coloro che dovrebbero essere riconosciuti come parte del movimento, almeno dai suoi inizi negli anni ’30 fino al recente passato, dall’altro ci troviamo di fronte al fatto che, in pubblico, essi stessi negano apertamente l’esistenza di un collettivo di pensiero ben definito e si oppongono strenuamente all’etichetta di neoliberismo. Non solo si lavano le mani della maggior parte delle attività documentate di quello che io chiamo il Collettivo di pensiero neoliberale (come quando Hayek e Friedman abiurarono la parentesi di Pinochet in Cile), ma si lamentano che i loro avversari, i socialisti, hanno sempre avuto la meglio su di loro. E quindi, sostengono, il loro progetto politico non ha mai goduto di alcun successo reale, mai, da nessuna parte, contrariamente a tutte le prove portate sul tavolo. Sono sempre la damigella d’onore dei partiti conservatori, ma mai la sposa. […]
La tendenza a negare l’esistenza del neoliberismo solleva quattro domande che affronterò qui: Perché si pensa che l’etichetta “neoliberista” sia così terribile? È possibile stabilire cosa significhi neoliberismo e come si possa riconoscere un neoliberale quando lo si incontra? I neoliberali dicono spesso la verità sulla loro dottrina? E, infine, una comprensione del neoliberismo può illuminare le questioni epistemiche contemporanee, come il progetto di sostituire la scienza di vecchio stampo con la “scienza aperta”?
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