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Nonsocomedire

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Uno spettro si aggira nella mia vita, e in quella dei miei amici, colleghi, di chi resta in contatto a distanza: non so come dire, ma è un’espressione gergale. Anzi, so come dirlo: è una espressione gergale, non so come dire.

Qualche anno fa – cinque, sei? – non l’avevo quasi mai sentita: piuttosto  mi ricordo cioè nel senso e la sua riduzione (nel senso…), ricordo letteralmente e credimi, poi vabé a Milano i vari super e megazio e zia e sbatti, ma “non so come dire”… non so come dire, non ricordo quando è iniziata. Nel momento in cui ho iniziato a notarla, qualche anno fa, ho cercato di sradicarla – o comunque ci provo, nscd.

Mi chiedo dove si nasconda il segreto del successo di questo tic tra i venti-trentenni mediamente istruiti, tutti molto in bilico, molto lavoro per poco denaro, le solite cose. Una forma di risposta ha iniziato a maturare lentamente, cioè, come un frutto, non so come dire, anche grazie a un articolo di Elizabeth Kolbert, un’autrice che abbiamo già citato delle volte, soprattutto per un suo saggio, La sesta estinzione.

Sul New Yorker Kolbert ha raccontato gli ultimi ritrovati nel campo degli studi delle scienze cognitive, intervistando – tra gli altri – Hugo Mercier e Dan Sperber, due accademici. Kolbert non li ha intervistati in veste di filosofa della mente, l’ha fatto da giornalista scientifica che racconta e riracconta il collasso ecologico.

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