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Sulle tracce di Pickwick

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A cura di @Nedcuttle21(Ulm).

La mattina del 10 febbraio 1836, un uomo bussa al numero 13 di Furnival’s Inn a Londra. E’ uno dei soci della casa editrice Chapman & Hall ed è lì perché ha un lavoro da proporre al giovane che vi alloggia, un cronista che scrive articoli per il Morning Chronicle e il Monthly Magazine e che solo tre giorni prima, in occasione del suo ventiquattresimo compleanno, sotto lo pseudonimo di Boz, è riuscito a farsi pubblicare dall’editore John Macrone una raccolta di bozzetti di vita londinese dal titolo Sketches by Boz. Il delegato della casa editrice offre al novello Boz di scrivere delle storie a puntate mensili che ben si adattino alla pubblicazione di alcune incisioni umoristiche dell’illustratore Robert Seymour. L’idea è quella di immaginare i protagonisti delle illustrazioni come soci di un circolo chiamato “Nimrod Club”, bizzarri personaggi dediti velleitariamente alle attività sportive più varie, che sovente si caccino nei guai a causa delle loro scarse abilità. Boz, che da circa un anno è innamorato della giovane Catherine Hogarth, figlia di un suo collega al Morning Chronicle, e vorrebbe tanto sposarsi, è perplesso e obietta che forse sarebbe meglio se fossero le incisioni di Robert Seymour, al contrario di quanto appena propostogli, ad adattarsi ai suoi testi. La Chapman & Hall accetta il punto di vista dell’aspirante scrittore e dietro suo suggerimento abbandona perfino l’idea iniziale del “Nimrod Club”. Ed è così che nel marzo successivo vede la luce, al prezzo di uno scellino, il primo fascicolo dell’opera, col titolo: The Posthumous Papers of the Pickwick Club.

Nessuno all’epoca poteva immaginare che l’episodio sopra riportato avrebbe dato l’abbrivio alla realizzazione dell’opera letteraria del più illustre e prolifico scrittore inglese dell’ottocento, o presagire che il contratto sottoscritto dal giovane Boz con la Chapman & Hall avrebbe costituito il seme da cui di lì a poco sarebbe germogliato il grande mercato editoriale moderno. Già, perché dietro lo pseudonimo di Boz non si cela un autore sopravvalutato, o al massimo destinato a passare come una meteora, ma il principale esponente di quel filone letterario che prenderà il nome di “romanzo sociale”, il creatore di personaggi memorabili come David Copperfield o Nelly Trent: il celebre Charles Dickens.

Le pubblicazioni di The Posthumous Papers of the Pickwick Club, che proseguono fino all’ottobre dell’anno successivo, con una tiratura finale di ben 40.000 copie contro le 400 iniziali, narrano le divertenti avventure dei membri di un circolo filantropico di pasticcioni che prende il nome dal suo fondatore, il buon Samuel Pickwick, un adorabile signore che nel maggio del 1827 insieme ai suoi stravaganti soci si mette in viaggio nell’Inghilterra pre-vittoriana con lo scopo di produrre un meticoloso resoconto sui costumi, le usanze, le testimonianze delle varie comunità con le quali il gruppo sarebbe giocoforza entrato in contatto. Una serie di brani esilaranti, leggendo i quali si percepisce il germe di quel che sarebbe stato l’universo letterario dickensiano, quel mondo popolato da personaggi che agiranno quasi sempre in preda a un parossismo di lodevoli sentimenti, o di pessime intenzioni; tendenze che spesso si accompagneranno armoniosamente a fattezze fisiche altrettanto estreme, in alcuni casi mefistofeliche, in altri sublimi (si pensi alla bella e fragile Dora e all’ “umile” stoccafisso dalle mani sempre sudate, Uriah Heep, nel David Copperfield, o al perfido nano deforme dal sadico sarcasmo, Daniele Quilp, ne La Bottega dell’Antiquario, o ancora all’avido e rugoso ricettatore ebreo, Fagin, in Oliver Twist); personaggi surreali che daranno vita a episodi spassosi o commoventi, in un’Inghilterra in piena rivoluzione industriale in cui all’opulenza delle classi agiate si contrapporrà la miseria delle classi subalterne, nelle quali i primi a mostrare i segni della sofferenza o dell’abiezione saranno ovviamente i più vulnerabili e cioè vecchi e bambini.

Lo scorso novembre, a 180 anni dalla prima pubblicazione in volume di The Posthumous Papers of the Pickwick Club (novembre 1837), in Italia edito col titolo “Il Circolo Pickwick”, è uscita per Einaudi una nuova edizione dell’opera, la cui traduzione è stata affidata a Marco Rossari, che in un pezzo pubblicato su Rivista Studio parla del romanzo e dell’arduo lavoro portato a termine:

In questo punto il 5 settembre del 1782 non è successo nulla». Ho guardato la placca, nel centro di Londra e, prima di postarla su Instagram per un pugno di like, mi sono domandato se alla fine non era proprio questo che ero venuto a cercare: la constatazione che il passato è inconsistenza, che i fantasmi non si possono afferrare, che bisogna tornare alla lettera. Dei luoghi non ci si può fidare, delle traduzioni sì. Mi ero trovato al centro di un vuoto? Bisognava tornare un po’ indietro, diciamo di duecentottantottomilaeduecentottantasei parole. Passeggiando per lo Strand, ripensavo a quando Einaudi mi aveva offerto di tradurre il Circolo Pickwick. La prima reazione era stata di panico. Per diletto o per studio, in passato, avevo affrontato pagine di Faulkner o Melville, e sapevo bene che cosa voleva dire salire sul ring con un peso massimo e scenderne con i denti rotti e gli occhi pesti. Ora: Charles Dickens, barbetta sorniona, macinatore di odissee, formidabile precursore di ogni storia. Come dire Omero, but with a twist (scusate il gioco di parole). Da quale angolo di superbia autolesionista potevo considerarmi in grado di prestare il bagaglio lessicale e grammaticale a un mostro del genere? Perché io, sozzo pidocchietto dalle ginocchia sbucciate, avrei osato rincorrere la carrozza maestosa di questo Signore della Trama e dello Stile, col rischio di precipitare a faccia in giù nella mota dell’inettitudine?

Immagine da Flickr.


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