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Vogliamo tutti aver ragione

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In un articolo pubblicato su Doppiozero, Giorgio Fontana propone un’analisi socio-politica del discorso pubblico nel nostro paese. Lo fa dopo avere per qualche mese seguire il discorso pubblico italiano attingendo a varie fonti e ponendo una certa attenzione a non cadere nel pregiudizio. 

Per “discorso pubblico” intendo qualsiasi intervento, opinione, dialogo, proposta e così via, espressa su giornali o riviste o in radio o televisione o in piazza: concetto estremamente ampio, me ne rendo conto, ma al contempo abbastanza maneggevole. E riassumo la tesi di fondo per i frettolosi: la parola è trattata molto spesso come bene privato da chi dovrebbe invece tutelarne l’aspetto pubblico e comunitario.

Fontana non nasconde che esista qualità anche in questo ambito:

Naturalmente i bravi e bravissimi pure esistono, come esistono canali (editori, radio, reti televisive, podcast…) di assoluta qualità; ma la loro voce risuona fievole, sepolta com’è dal baccano generale, dalla scarsa tolleranza verso il dissenso — i bravi criticano, si impegnano, sono fastidiosi — e dai difetti di cui provo a dare conto.

L’autore individua invece tutta una serie di difetti (enfasi, astrattezza, oscurità, sciatteria, paternalismo, spudoratezza, spocchia, aggressività, maleducazione, mancanza di accountability, autoriferimento e asimmetria narrativa) che hanno in parte le loro origini nel novecento, mentre altri sono una novità.

La buona notizia è che per ognuno ci sarebbero rimedi nemmeno troppo complicati. La pessima notizia è che difficilmente la maggior parte dei titolari del monopolio intellettuale vorrà impegnarsi in tal senso, perché implica parecchio lavoro e una perdita considerevole di potere.


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