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Per salvare la sua città in declino, un sindaco si rivolge ai coreani sradicati da Stalin

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Victoria Kim in un reportage per il New York Times decrive (alt) l’iniziativa di un sindaco in Corea del Sud, dove una piccola città affronta l’invecchiamento della popolazione e la chiusura di varie attività e scuole.

Jecheon è una località della Corea del Sud, a Est di Seoul, che come il resto della nazione sta soffrendo gli effetti dell’invecchiamento della popolazione e dell’inverno demografico: ci sono sempre meno giovani, le scuole chiudono così come i negozi e le aziende, mentre le strade e i luoghi pubblici iniziano a essere trascurati.

Il suo sindaco Kim Chang-Gyu, un ex-diplomatico, per risolvere questo problema ha avviato un’iniziativa per attirare i coreani etnici provenienti dall’Asia centrale, discendenti di coloro che furono deportati dall’Unione Sovietica di Stalin nel 1937.

Kim, un diplomatico in pensione, ha guardato più lontano: l’Asia centrale e il mezzo milione di persone di origine coreana che vivono lì da quasi un secolo. Se fosse riuscito a convincere un numero sufficiente di loro a trasferirsi a Jecheon – una popolazione di 130.000 abitanti e in calo – pensava che avrebbero potuto gettare le basi per il suo futuro.

Koryo-saram è il termine con cui si identificano le persone di origine coreana che risiedono negli ex Stati sovietici, come spiega KulturEurasia nella sua Breve storia della diaspora Koryo-saram:

Non sono né nordcoreani né sudcoreani: sono semplicemente Koryo-saram, discendenti dei coloni coreani del XIX e XX secolo nell’Estremo Oriente russo. Nel 1863, le prime famiglie coreane attraversarono furtivamente il fiume Tumen in Russia. Altre famiglie coreane si unirono per sfuggire alla fame o per motivi politici, soprattutto dopo che il Giappone annesse la Corea nel 1910. Furono rapidamente russificati e accolti dal governo russo, poiché erano in grado di coltivare riso e altri prodotti in zone fredde che fino ad allora erano state considerate non coltivabili. Ma all’indomani della creazione dello stato fantoccio giapponese Manchukuo nel 1932 (non troppo lontano dagli insediamenti del Koryo-saram), attirarono l’attenzione di Stalin. Sapeva che le minoranze erano ricettive alla sovversione, specialmente nelle aree confinanti con zone di conflitto turbolente.

Anche Blooming Corea ricorda la diaspora coreana in Asia Centrale:

La migrazione dei coreani in Asia centrale iniziò alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, principalmente spinta da sconvolgimenti politici, opportunità economiche e pressioni coloniali. La prima ondata di migrazione può essere fatta risalire alla fine del XIX secolo, quando i coreani si spostarono nell’Estremo Oriente russo, cercando sollievo dalle difficoltà economiche e dal dominio coloniale giapponese. Questa migrazione ha gettato le basi per i successivi trasferimenti più in profondità in Asia centrale.
Un evento significativo e tragico nella storia dei coreani in Asia centrale fu la deportazione di massa orchestrata da Joseph Stalin nel 1937. Accusati di essere potenziali spie per il Giappone, quasi 172.000 coreani etnici furono trasferiti forzatamente dall’Estremo Oriente russo in aree remote del Kazakistan e dell’Uzbekistan.

L’insediamento dei coreani in questi territori fu molto difficile:

I coreani deportati affrontarono climi rigidi, terreni sconosciuti e una mancanza di risorse di base. Molti furono assegnati ai kolkhoz (fattorie collettive), dove dovettero adattarsi a nuove pratiche agricole e alle richieste di lavoro.

La comunità coreana cercò comunque in ogni modo di preservare il proprio patrimonio culturale:

Mantennero la loro lingua, le tradizioni e le pratiche culinarie, adottando al contempo aspetti delle culture locali. Le scuole coreane, i centri culturali e i giornali svolsero un ruolo cruciale nella conservazione della loro identità.

Oggi come oggi il programma del  sindaco di Jecheon Kim Chang-Gyu offre ai discendenti di queste persone alloggi gratuiti, pasti e supporto per trovare lavoro e ottenere la residenza permanente.

Circa 130 persone si sono trasferite a Jecheon nell’ambito dell’iniziativa, per lo più famiglie che vivevano già altrove in Corea del Sud, e più di altre 150 si sono registrate per farlo, secondo la città. I coreani sovietici sono arrivati in Corea del Sud nell’ultimo decennio, per lo più per lavorare nelle fabbriche o per svolgere altri lavori che i locali non vogliono più, ma che possono fornire redditi molto più alti rispetto all’Asia centrale.

La Corea del Sud, come altri paesi dell’estremo oriente, è molto riluttante ad accettare forza lavoro immigrata, nonostante la cronicità del suo problema demografico. Nonostante le iniziative intraprese, numerosi migranti non si percepiscono pienamente accettati dalla comunità locale e incontrano ostacoli nell’adattamento culturale e linguistico. Spiega il NYT:

A marzo Ruslan Li si è trasferito con la moglie e i due figli piccoli nella stanza 207 del dormitorio da Karaganda, Kazakistan, a 2.800 miglia di distanza.
Crescendo, il signor Li ha detto di aver pensato raramente alla Corea. Conosceva una sola frase in coreano, l’unica espressione che suo padre ricordava da sua nonna: “Lavati i piedi”.
Di recente il signor Li ha iniziato a lavorare al minimo sindacale in una fabbrica che produce polvere di silicio per batterie. Ha detto di essere grato al sindaco per l’opportunità di migliorare il futuro finanziario della sua giovane famiglia. I suoi figli, di 2 e 4 anni, si nutrono di farina d’avena perché non sono abituati al cibo coreano, ma sembrano ben adattati all’asilo, ha detto. Lui e sua moglie, che è di etnia kazaka, temono che i bambini perdano il loro legame con la cultura kazaka, tenuemente legato alle chiamate WhatsApp con i nonni a Karaganda. Non ha pensato oltre i due anni in cui dovranno vivere a Jecheon in cambio dei benefici del programma. “Ci sono tutti questi programmi che ti aiutano ad adattarti, ma credo che continuerà a sembrare un posto straniero”, ha detto.


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