L’articolo di Sofia Belardinelli su Il Tascabile sfida l’idea tradizionale che l’evoluzione sia un processo lineare verso una maggiore complessità.
Al contrario, mostra come la perdita di geni, un fenomeno noto come “regressione”, possa rappresentare un vantaggio adattativo. Il caso emblematico è quello di Oikopleura dioica, un piccolo animale marino il cui genoma ha subito una drastica semplificazione seguita da una nuova diversificazione. Questo processo ha portato a innovazioni evolutive sorprendenti, come il passaggio da uno stile di vita sessile a uno libero.
Il concetto chiave è la teoria del “less, but more”: perdere geni può liberare spazio per nuove soluzioni evolutive, rendendo la semplificazione un motore di diversità e adattamento.
Come ha affermato il biologo Cristian Cañestro nel presentare questa ricerca, “Il modello evolutivo ‘less, but more’ ci consente di comprendere come, a volte, perdere qualcosa apra nuove possibilità per guadagni futuri, e come, quindi, le perdite siano necessarie per favorire l’origine evolutiva di nuovi adattamenti”. È una prospettiva che ci permette di guardare con occhi nuovi a un processo a lungo ritenuto secondario, non perché lo fosse davvero, ma perché, nell’osservarlo, non ci si aspettava che proprio da una riduzione della complessità – una semplificazione delle forme di vita, con tutto il carico valoriale che questo concetto porta con sé – potesse derivare, grazie all’imprevedibilità dei processi evolutivi, una nuova ondata di diversificazione. Se dovessimo disegnare con una linea continua il percorso evolutivo del corredo genetico di Oikopleura dioica, quella linea sarebbe un arzigogolo tutt’altro che lineare, che contraddirebbe tutte le nostre aspettative. Tutto questo apre uno spiraglio su quanto sia non lineare e imprevedibile – e, per questo, insostituibile e preziosa – l’evoluzione della vita.
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