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Aratro

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A casa ho ritrovato una vecchia copia delle Scienze, del maggio 2005. In quegli anni sui giornali si parlava poco di riscaldamento globale, in Italia si usava quasi solo l’etichetta “effetto serra”. Nell’aria danzavano 382.45 ppm di CO2 e antropocene era una parola che iniziava appena a riverberare nei convegni di climatologia – forse pronunciata più che altro davanti al tavolo del coffee break, e non ancora durante le discussioni ufficiali.

La storia di copertina della rivista è firmata da William F. Ruddiman, paleoclimatologo, geologo marino e professore emerito di scienze ambientali. Per quarant’anni, da ricercatore, Ruddiman aveva letto le tracce dei cambiamenti climatici nei sedimenti oceanici e nelle variazioni dei mari. Apro una parentesi: ci vorrebbe qualcuno con lo sguardo di Werner Herzog per raccontare gli studiosi della storia del clima, aruspici contemporanei che cercano segni di un passato remoto, sepolto in posti non meno improbabili delle budella di un animale: anelli di alberi secolari; bolle di aria antica intrappolate in carote di ghiaccio lunghe a volte qualche chilometro; campioni di fondali oceanici estratti da appositi battelli; frammenti scavati a mano nei sedimenti lacustri.

Negli ultimi anni di carriera, Ruddiman era stato eletto direttore di dipartimento all’università della Virginia, e a ridosso del pensionamento aveva formulato la teoria a cui avrebbe legato per sempre il proprio nome: l’ipotesi Ruddiman, ribattezzata poi ipotesi dell’early anthropocene. In quel numero delle Scienze (l’articolo originale era uscito su Scientific American) Ruddiman la spiega per la prima volta al pubblico.

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