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Charlie – Domenica 16 agosto 2020

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Un ciclico dibattito sul “ricambio generazionale” sta venendo promosso nelle ultime settimane da Repubblica, a partire da una risposta a un lettore di Michele Serra. Le diverse opinioni raccolte finora sembrano trovarsi d’accordo sulla vacuità sterile del dibattito, in realtà. Però il pezzetto della questione che riguarda i giornali è interessante, ed è spesso a rischio di equivoci da parte di chi non conosca bene le economie e i cambiamenti nelle aziende editoriali. I maggiori giornali italiani sono dei luoghi di scarso rinnovamento culturale, innanzitutto: significa che quando anche vi arrivino giornalisti più giovani vengono introdotti dentro un pensiero e una lettura delle cose e della professione che sono poco aggiornati e contemporanei, e vengono assorbiti da quella cultura prima di poterla modificare e rinnovare. Tra la tradizione nei giornali e la giovinezza dei nuovi assunti, vince quasi sempre la prima (un esempio: il modo in cui vengono ancora raccontati gli Stati Uniti: quasi tutto orientato da una conoscenza novecentesca di quel paese, in cui ogni cosa viene fatta risalire ai Kennedy, al Ku Klux Klan, a Woody Allen o a una serie di macchiette dai “cowboy texani” in giù).
Ma in ogni caso è vero che sono pochi i giovani che accedono alle redazioni e soprattutto ai loro ruoli più importanti: un po’ è per la scarsa apertura verso i giovani che riguarda molti altri settori italiani, un po’ per ragioni economiche. Molti giornali sono infatti in condizioni di crisi per cui assumere è difficile o addirittura impossibile; in altri, il costo di nuove assunzioni (come in molte altre imprese, un assunto costa circa il doppio di quello che verrà pagato) è un onere pesante di questi tempi, e non si riesce a compensarlo – né sarebbe sempre giusto, né è giusto rimproverarlo agli interessati – tagliando i contratti, che risalgono a tempi di vacche più grasse, di giornalisti meno giovani (e spesso assai capaci e impegnati).
Un risultato di questo limitato ricambio e rinnovo è che – per fare solo l’esempio più vistoso – i direttori dei 15 maggiori quotidiani italiani hanno tutti almeno 55 anni: salvo uno, che è una direttrice, l’unica (Agnese Pini, 35, La Nazione): ma di questo abbiamo già detto una settimana fa.

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