Un articolo di Jacobin Italia propone un’analisi politico-sociologica della figura di Diego Armando Maradona.
Nel momento del lutto collettivo, le passioni di Diego, le sue identificazioni – dalla sua lotta al potere globale del calcio al tatuaggio del Che, da Fidel e Cuba a Napoli, dal Boca Juniors all’Alca no-global del 2005, dalle Madres de Plaza de Mayo a Chavez a Lula al kirchnerismo – non fanno che mobilitare, convocare, i molteplici fili ontologico-esistenziali-sentimentali di un dramma storico (e globale) marchiato nel sangue e ancora inconcluso.
C’è qualcosa di più decoloniale (e populista nel senso di Laclau) della mano di Dio propinata agli inglesi da un ragazzo nato in una «villa», una baraccopoli, di Fiorito, nella periferia di Buenos Aires? O della miracolosa punizione da dentro area alla Juve al San Paolo? Poco importano i fatti in sé, ciò che conta è che così vengono sentiti, conta la singolare catena di significazione entro cui si inseriscono, gli affetti che smuovono. E la politica è mossa anche da affetti. Come Muhammad Ali, Diego poteva esprimere sé stesso solo con il linguaggio delle passioni e delle identificazioni, non poteva certo parlare la lingua (tutta occidentale) della ragione discorsiva, non poteva identificarsi con i significanti facili del potere, con la miseria senza anima della storia dei vincitori.
Immagine da Wikimedia.
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