Emmanuel Carrère sul Guardian racconta del proprio disturbo bipolare di tipo II, dalla crisi che lo ha portato a una diagnosi a 60 anni, al suo ricovero di quattro mesi (passando dalla ketamina all’elettroshock), al sollievo — in un certo senso — nell’avere una diagnosi e di tutti gli altri pensieri che passano per la testa di un malato di malattia psichiatrica.
Il medico pone l’accento sulla nozione di malattia, molto diversa da quella di nevrosi, che ha dominato la mia vita adulta. Non si tratta di scoprirne l’origine o di capire perché ho passato la vita a portarmi dietro un così grande carico di merda nella testa. Il fatto è che sono malato, proprio come se avessi avuto un ictus o una peritonite, quindi mi faranno sdraiare e cercheranno la cura giusta, senza nascondere che stanno brancolando nel buio e che potrebbero non trovare subito la cosa giusta per me. “Ma quello che possiamo fare finché non la troviamo”, dice il pezzo grosso, “è tenerla lontano dal pericolo. E non si preoccupi, la porteremo via di qui il più velocemente possibile”. Sentendo questo, tiro un sospiro di sollievo: Sono malato, mi sdraierò, smetterò di lottare, lascerò che le cose facciano il loro corso, si prenderanno cura di me, e per cominciare mi spareranno alla grande.
Carrère incomincia con gli episodi di depressione maggiore, dove la malattia lo costringe a letto o a fumare ossessivamente. Non riesce più a badare alla faccende domestiche, arriva a quasi due mesi senza lavarsi. L’ingresso forzato all’ospedale psichiatrico di Sainte-Anne segna una nuova tappa. Finalmente arriva una diagnosi:
Ritardo psicomotorio moderato con ipomimia, espressione triste ma reattività emotiva. Sconforto, anedonia, abulia, significativa sofferenza morale, astenia con un notevole carico psichico e fisico nello svolgimento delle attività quotidiane. Elementi di malinconia con peggioramento del futuro e senso di incurabilità. Ruminazione, sensi di colpa verso i propri cari, idee suicide invasive…
Il racconto continua con il rapporto conflittuale con medici, infermieri e soprattutto i farmaci che gli sono stati prescritti. L’odissea dura tre mesi, con l’uscita dal Staine-Anne in aprile.
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