Francesco Gerardi su Rivista Studio se la prende con chi traduce i titoli dei film.
Un giorno i distributori italiani capiranno che per un film non c’è niente di più importante del titolo e che cambiarlo dovrebbe essere l’eccezione, non la regola. Andare a vedere un film intitolato Limonov è un conto, andarne a vedere uno intitolato Limonov: The Ballad tutt’altro. Il film di Kirill Serebrennikov, presentato in anteprima mondiale allo scorso Festival di Cannes e arrivato nelle sale italiane il 5 settembre, si intitola Limonov: The Ballad non certo a caso: in quelle due parole in più c’è tutto quello che manca nel film, rispetto alla biografia romanzata scritta da Carrère e anche, soprattutto, rispetto alla vita vera di Eduard Limonov. Nel sottotitolo The Ballad si intuisce la vita che Serebrennikov preferisce tra tutte quelle, numerose, stupefacenti, spaventose, contraddittorie che Limonov ha vissuto: quella da starving artist, del reietto che veste come una rockstar e scrive come un agit-prop, Il poeta russo (che) preferisce i grandi negri. È questa la vita più interessante tra le nove e più vissute dallo stregatto Limonov? Forse sì, forse no, forse l’unica cosa che l’osservatore – quindi anche il narratore – può fare davanti a questa storia è mettere le mani avanti e dire «io sospendo il giudizio» come ha fatto Carrère: così è (se vi pare), ma così è tutto Limonov. O almeno, così è tutto il Limonov che Limonov stesso ha avuto voglia di raccontare e di inventare.
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