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A cura di @NedCuttle21(Ulm).

Un articolo pubblicato su Il Tascabile racconta di alcune misure coercitive a scopo assistenziale applicate dalla Svizzera, a partire dal dopoguerra, alla fetta più vulnerabile della società, proponendo un’analisi delle cause dietro il ritardo del paese elvetico sul piano dei diritti umani. Il pezzo ripercorre la drammatica storia di alcune persone per le quali sono stati adottati tali provvedimenti, come quella di Sergio Devecchi: da verdingkinder (bambino-schiavo) nell’Istituto Dio Aiuta di Pura, nel Canton Ticino, a presidente della Società svizzera di pedagogia sociale.

[…] Fino agli anni ottanta, le autorità amministrative svizzere applicano questi provvedimenti a decine di migliaia di persone considerate non conformi – per condotta, censo, o etnia – ai valori dell’integrazione sociale e del successo economico. Per finire in un campo di lavoro è sufficiente essere “bevitori, vagabondi, oziosi e dissoluti”; le prostitute, le ragazze madri, le donne sole con figli a carico (nubili, divorziate, vedove) vengono spedite in case d’internamento o direttamente in carcere. Se sono incinte, le autorità possono farle abortire; se ancora non lo sono, possono sottoporle a sterilizzazione. Lo stesso vale per “dementi di ogni grado”, donne “pericolose”, “deviate”, o solo appariscenti: “una che si è tinta di biondo, una che ride troppo in giro per il paese” racconta Erna Eugster, ex internata, può essere privata della libertà simpliciter et de planosine strepitu et figura iudicii, come usava nei processi di stregoneria nell’Europa di Zwingli e di Lutero. Poi ci sono i Verdingkinder, i “bambini-schiavi”, ovvero: minori con difficoltà cognitive, figli illegittimi, figli di genitori divorziati, o poveri, o Jenisch (gli “zingari bianchi” di origine germanica) prelevati d’autorità e collocati in istituti o fattorie per essere impiegati come forza lavoro.

Immagine da Wikimedia.


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